Potenza metapsichica
della sincronicità. Nell'ottobre del 2012, a un
anno dal congedo, uscivano due testi di Andrea
Zanzotto dall'eco tanto
evidente quanto misteriosa. Einaudi ripubblicava, con intensa prefazione di Giuliano Scabia, il poemetto Filò che nel 1976 per la prima volta
aveva ammesso alla sua scrittura il
dialetto veneto, «parlar vecio» per
lui materno e quotidiano. Negli Stati
Uniti usciva invece Haiku for a season: corona di «pseudohaiku» scritti
in inglese nell'84 con «versioni parallele e semiautonome» dell'autore
(pseudo- perché incuranti della metrica giapponese; così li definiva
Zanzotto con Marzio Breda, con
prefisso che richiama la «pseudotrilogia» coeva del Galateo in Bosco, di
Fosfeni e Idioma). Sette anni dopo gli
«pseudohaiku» finalmente escono
anche da noi, nello «Specchio»
Mondadori; proprio mentre, di nuovo in sincronia, vede la luce da Quodlibet una collana dedicata da Giorgio Agamben (col titolo pasoliniano
di «Ardilut») a «ogni ricerca di una
lingua poetica che fuoriesca dal monolinguismo», a partire appunto
dalla poesia in dialetto.
Insieme a un Pasolini '44, I Turcs
tal Friùl, e a un'antologia di Francesco Giusti, la inaugura una silloge
delle «poesie in dialetto 1938-2009»
di Zanzotto: operazione «non indolore» - avverte il curatore Stefano
Dal Bianco - stante l'«architettura
ferrea» di libri che alternano il «parlar vecio» all'italiano iperletterario
cui si era legata, questa poesia, sin
dall'esordio di Dietro il paesaggio. Ma
«operazione» altresì preziosa, per
capire intus et in cute quella che il poeta chiamava la sua «diglossia». Episodio-chiave, gli Appunti e abbozzi
per un'ecloga in dialetto sulla fine del
dialetto del '69-71 ma, sinora, pubblicato solo su rivista. Scrivere in
dialetto significa per Zanzotto inventare «'na lengua che varìe podest
nàsser / e no l'è nassesta mai» («una
lingua che sarebbe potuta nascere /
e non è nata mai»). Lingua del non
più, certo (come in Onde éli, suite di
Idioma su care ombre sparite dalla
«contrada»: a partire dalla «più cara
delle sue zie», che scriveva poesie
«co drento parole in latin»). Ma, anche, lingua del non ancora: infungibile per «riesumazioni o imbalsamazioni "da riserva"» e invece paradossale «guida (al di là di qualunque
ipotesi sul suo destino) per individuare indizi di nuove realtà che premono ad uscire».
Così scriveva Zanzotto nella breve
e iperdensa «nota» acclusa all'«eruzione» (così Dal Bianco) di Filò, poemetto originato dal lutto per la morte
della madre, dalla committenza dell'amico Federico Fellini di dialoghi
veneziani per il suo Casanova e dallo
scuotersi micidiale della terra madre,
nel sisma del Fiuli. Uno scritto straordinario, che a ragione Scabia paragonava a un De vulgari eloquentia del
Novecento, e che si capisce quanto
premesse ad Agamben per inaugurare questo laboratorio. Come in quel
testo aurorale, infatti, è nella poesia
che la lingua si mostra nella sua «intima diglossia»: che in Dante separa
il latino dall'italiano della «nutrice»,
mentre in Zanzotto distingue l'italiano dall'«oralità perpetua» del dialetto: che risuona «là sote e dentro, do
inte 'l bas», come le immagini oniriche del cinema. In questo strato profondo della psiche, la parola della poesia è quella che «no l'é in gnessuna
lengua / in gnessun logo» (questo il
titolo, bellissimo, scelto per la silloge): perché la sua sede è «la gran laguna», «la gran lacuna» dell'essere.
Quello degli Haiku per una stagione è un giro di vite. Nella loro struttura minima, adottano una lingua
«quasi al grado zero»: l'inglese della
globalizzazione, infestante parola-alien che erompe durante una grave
crisi depressiva, «per bolle»: eruzioni epidermiche, sfiati improvvisi di
un sobbollimento da pentolone streghesco, macbettiano, o piuttosto da
soffione geotermico, vulcanico. Una
«beltà» mostruosa e medusea: come, nel disegno di Fellini da cui tutto
si è originato, la «gigantesca e nera
testa di donna» che emerge dalla laguna veneziana, «la gran madre mediterranea [...] che abita in ciascuno
di noi». La spinta iconica del Virgilio-Fellini ha precipitato il Dante-Zanzotto nella sua stagione all'inferno (la Season, la Saison cui alluderanno gli Haiku). Ma allora l'autodiagnosi della «diglossia» si
corregge, pascolianamente, in una
triglossia (un «idioma trifarium»,
per dirla col De vulgari eloquentia
originale): all'italiano "diurno" e veicolare sottostà l'"infero" dialetto e
si sovrappone il "supero" e «superfluente» inglese: che ha preso il posto, quale parlata «tendenzialmente
panterrestre», del latino. Il latino
della zia poetessa che negli anni Sessanta Zanzotto evocava come «lingua morta e lingua della morte».
Sotto la pelle della lingua, sotto la
terra della mente - dietro il paesaggio, insomma - cova persistente
qualcosa di oscuro e terribile. Zanzotto, guerriero mite e indomito,
quella Medusa l'ha sempre sfidata.
Talvolta evocandola in cifra, per
obliquo; talaltra guardandola negli
occhi, segnandocela a dito. Ma sempre con audacia - quella che si dimostra solo quando si ha davvero paura. Quella stessa paura, scura tenebrosa lampeggiante, che ci avvolge
ora che non c'è lui a indicarci il sentiero - a farci coraggio.