Esiste un’arte involontaria, un’arte
che è tale non per volontà di un artista
bensì per il suo stesso modo
d’accadere? Una sorta di opera che
non è firmata da qualcuno, ma prodotta
dall’azione della natura, dal
suo interagire con quello che fa, o
ha fatto, l'uomo? Secondo Gilles Clément, il paesaggista
che con la sua idea di Terzo Paesaggio ha rivoluzionato
il modo di pensare le forme naturali, i giardini,
gli spazi abbandonati delle metropoli, i campi deserti
delle periferie, i marciapiedi e gli altri luoghi interstiziali
in cui ci imbattiamo ogni giorno, senza
che ce ne accorgiamo questa arte c'è, esiste. Basta
guardarla. Clément ci espone il suo modo di osservare
la presenza delle piante, del mondo vegetale, intorno
a noi, dando vita a una sorta di «genialità naturale»,
che sfugge ai modi tradizionali d'organizzare
gli spazi verdi nelle città, ordinati e disciplinati secondo
una sorta di cartesianesimo vegetale, che ha il
suo culmine nel prato all’inglese, nel green rasato
dalle macchine tosaerba. In Breve trattato sull'arte
involontaria (Quodlibet) ci guida attraverso questi
spazi che ci sono, basta saperli vedere. Attraverso
una classificazione - neppure Clément rinuncia alla
classificazione, sia pure bizzarra ed eccentrica - che
si cadenza in Voli, Accumuli, Isole, Costruzioni, Erosioni,
Installazioni, Tracce, Apparizioni, il paesaggista
francese ci fa attraversare luoghi marginali, spazi
remoti oppure molto conosciuti, deserti e spiagge, risaie
e dune, orti e pietraie, scompartimenti di treni e
campi di girasoli. Disegna e fotografa, prende appunti
e racconta quello che ha visto di questa arte non
premeditata che galleggia sulla superficie delle cose.
Gli ispiratori invisibili di questa passeggiata tra i
vari continenti sono Deleuze & Guattari, Michel Serres,
Jacques Derrida, che hanno disarticolato il pensiero
filosofico razionalista per introdurre nuove visioni
del mondo sensibile e degli oggetti. Si tratta di
un'arte senza gravità, scrive l'autore, perché «la società
non gli dà peso».
Senza statuto, senza discorso, senza obbligo, arte
disarmata. Si sottrae alla politica, e appena esposta
subito scompare. Non ha nessuna consistenza e probabilmente
nessuna utilità. Solo esiste, come accade
a una fila di sacchetti di plastica, che fungono da spaventapasseri
in una risaia cinese, o agli accumuli di
pietre a Cradle Mountain in Tasmania. Ci sono i silos
dei cementifici e le cataste ordinate di legna nel Limosino
in Francia. Basta alzare gli occhi verso l'alto
nella Vecchia Delhi e si coglierà l'intrico dei fili della
luce, dei telefoni e delle mille linee aeree che si trovano
lassù, sopra la nostra testa, o cogliere la forma
sventagliata di un cancello forzato in un quartiere
periferico di Parigi.
L'operazione che Clément compie è quella di restituire
una forma all'informe, di trovare un senso ai
mille segni che si trovano intorno a noi, così come
hanno fatto prima di lui le avanguardie novecentesche.
Da questo punto di vista non è qualcosa di nuovo;
la novità consiste nel modo attraverso cui il paesaggista
registra queste presenze “artistiche” nello
spazio post-urbano e post-industriale, in cui siamo
immersi. L'autore compie un'operazione che ricorda
il modo con cui Piranesi guardò le rovine delle antichità
romane nel Settecento, quando la modernità
non era ancora sorta e pienamente dispiegata, e l’antico
non ancora affidato agli archivi della Storia. Era
quella dell’incisore un'episteme molto incerta e artisticamente
minore, come le figurine dei suoi uomini
che si muovono tra le rovine. Clément sta dando forma
a qualcosa del genere, non solo attraverso la raffigurazione,
come in questo libro, ma mediante un'azione
virtuosa sul paesaggio e sui suoi interstizi. La
sua cartografia visiva e mentale prende in considerazione
anche i rifiuti, i sacchetti di plastica, ad esempio,
di cui traccia il percorso improbabile. Un modo
virtuoso di guardare il mondo attorno, un esercizio
zen di comprensione virtuosa dell’incomprensibile.