Recensioni / C'era una volta la critica letteraria: Dieci inverni, di Franco Fortini

«Chi non spiega è responsabile.» Dovessi scegliere una sola frase per riassumere l'importanza filosofica e pedagogica di Franco Fortini (1917 - 1994) nel panorama intellettuale italiano, sarebbe questa, con tutti i suoi echi alla Camus e alla Fassbinder. Ogni tanto ci si imbatte in libri che sono seminali e senza tempo. Come tali, sono difficilmente classificabili, perché il loro portato esonda con facilità dagli argini della materia specifica in cui l'editoria vorrebbe ordinatamente collocarli, per travolgere e portare effetti e conseguenze in campi assai distanti, e d'improvviso divenuti fertili.
È questo il caso del celeberrimo Dieci inverni 1947-1957 del poeta Franco Fortini - ora ripubblicato dalla benemerita Quodlibet (2018, €24, pp. 382) - uno dei pochi uomini a cui la definizione stessa di "poeta" stia stretta. Fortini fu di più. Fu un intellettuale a tutto tondo, impregnato fino all'essenza con la politica, socialista in anni in cui il termine era guardato con rispetto e timore sia dai partiti moderati o borghesi, che alla sua sinistra, dai comunisti. Critico letterario per antonomasia, in un pantheon ideale del '900 con Giacomo Debenedetti, Luigi Meneghello, Cesare Segre e Franco Moretti. Insegnante di Storia e Italiano all'Istituto Tecnico: una missione nella missione. Ma più di tutto, Franco Fortini fu un punto di riferimento per l'ala più arguta di diverse generazioni di riformisti europei e in un'epoca, quella della Guerra Fredda, fra le più complesse, difficili, soffocanti e anche compromettenti per gli intellettuali di sinistra.
I «dieci inverni» da cui il titolo sono appunto quelli fra l'inizio del Piano Marshall, il XX Congresso del PCUS e i postumi dell'invasione d'Ungheria. Anni in cui si passa dallo stalinismo alla de-stalinizzazione con un rapporto Kruschev che stravolge e scandalizza qualche miliardo di comunisti e di anti-comunisti. Ma il riformismo di Kruschev andrà poi a infrangersi in quei carro armati sovietici che schiacciano nel sangue il tentativo riformista del compagno Imre Nagy a Budapest. Ai tempi, girava una brutta ma efficace barzelletta: alla morte di Stalin, Kruschev entra nella stanza che fu dell'uomo d'acciaio e prende possesso della sua scrivania personale. Apre il primo cassetto, e trova una lettera chiusa di Stalin indirizzata «al mio successore». In quella lettera, Stalin ammette tutte le repressioni, i crimini commessi in nome del comunismo sovietico e dice al suo successore: «Denunciami, per il bene dell'URSS». Così Kruschev va davanti al Politbjuro del PCUS e davanti al mondo denuncia tutti i crimini di Stalin. Passano pochi anni, e Kruschev si trova a dover gestire la rivolta d'Ungheria. È disperato, non sa come fare, quando s'accorge che sul fondo del secondo cassetto della scrivania giace un'altra lettera chiusa di Stalin, sempre indirizzata «al mio successore/2». La apre e legge: «Fai come me, per il bene dell'URSS.»
In Italia - paese di frontiera in tutti i sensi, liminare geopolitico per eccellenza della Guerra Fredda assieme alle due Berlino armate ma non ancora divise dal Muro, grazie al suo Partito Comunista più votato dell'Occidente - la eco di quel trauma fra stalinismo e destalinizzazione arriva col riverbero delle campane a morto. Fortini, ebreo, partigiano dopo l'8 settembre, poi azionista, iscritto al PSIUP e infine al PSI, rimarrà socialista riformista fino alla fine dei suoi giorni. Terrà sempre presente la linea dell'orizzonte su cui muoversi, ma questo non gli impedirà certo di rivolgere le sue analisi e le sue critiche verso i comunisti italiani. Come ha detto di recente Rossana Rossanda: [Dieci Inverni contiene] «interventi che ruotano tutti intorno a un tema: il silenzio, o peggio, la complicità dei partiti comunisti occidentali, dunque anche nostra, sulla repressione che infuria in quegli anni sui dissenzienti nei paesi di “socialismo reale”».
La prima edizione di Dieci Inverni fu pubblicata da Feltrinelli nel 1957. In essa si raccoglievano «insieme a inediti, articli censurati, lettere non spedite e pagine di un saggio incompiuto» come ricorda l'Avvertenza della prima edizione, anche «scritti comparsi su periodici, riviste e bollettini poligrafati» che Fortini aveva dedicato non soltanto alla letteratura, ma all'intera società italiana e internazionale in quegli anni faticosi. L'intreccio fra cultura e politica in queste pagine sarà destinato a rimanere famoso, tanto è vero che lo stesso Fortini ebbe a definirisi "letterato per i politici, ideologo per i letterati" con una pennellata auto-sarcastica, che penso dia la cifra dell'uomo. In queste pagine, già ripubblicate anche nel 1973, l'autore spiega la sua interpretazione della funzione della critica letteraria, il ruolo dei gruppi intellettuali, il rapporto fra morale e politica, fra democrazia e socialismo, le conseguenze dell'età di Stalin. Si apre con una dotta disamina dell'esperienza del Politecnico, con un'analisi del celebre scontro Togliatti-Vittorini che consente di affrontare di petto il dibattito fra intellettuali e Partito comunista.
In questa bellissima terza edizione Quodlibet, a cura di Sabatino Peloso e con una colta postfazione di Matteo Marchesini, si è conservata la struttura composita dell'edizione De Donato del 1973. È una raccolta felicemente disordinata, che pone sul proscenio uno degli interveneti più noti di Fortini, Il senno di poi, un'amara autocritica sulla condizione dell’intellettuale marxista negli anni del dopo-Marshall, prosegue poi con un Discorso indiretto dove si trovano scritti di metodo critico che hanno implicato questioni di direzione culturale, va avanti con Da un libro bianco (1950-1953) dove Fortini tratta delle sue impressioni in alcuni campi di lavoro della Germania Occidentale per profughi della parte Orientale, nell'estate del 1949. Il volume poi include una terza parte chiamata Discorso diretto che rappresenta interventi di pubblicistica nella disputa politica, e quella Lettera a un comunista che affronta temi immarcescibili del dibattito a sinistra. Infine, c'è in questa edizione in più un'appendice ricca e corposa che recupera l'Avvertenza iniziale, l'articolo Lo Stato-guida - unico scritto della prima edizione escluso dalla seconda - e l'aggiunta del testo postumo Per Dieci Inverni comparso nel volume Un giorno o l'altro (Quodlibet, 2006).
Proprio dalla Lettera a un comunista voglio citare un brano che dà la misura di quanto certe polemiche cronachistiche sulla distanza e incomunicabilità fra operai, popolo e principale partito della Sinistra siano sempre esistite nel dibattito politico-culturale italiano, sin dagli anni Cinquanta. Qui la modernità è rappresentata, come poi in Tondelli, dalla città, dalle sue luci, dai suoi locali notturni. Albori di consumismo, che distraggono dal comunismo. Ma coi quali la Sinistra deve saper fare i conti e parlare, non combattere:

«[...] Mi trovavo, qualche sera fa, in un cinema di estrema periferia, in mezzo ad un pubblico operaio. Vi si dava un film di guerra americano; le attualità facevano vedere le solite cose, i ministri, le sfilate di moda, il Papa. Non c'erano dubbi sulle reazioni del pubblico; eppure gli abitanti di quelle case popolari, battuti e divisi nelle fabbriche, già forse gli uni contro gli altri per il posto di lavoro o nella tensione al soddisfacimento dei bisogni che la città aguzza sempre più pungenti, avevano forse già da tempo disertate le sezioni e le cellule; o quelli di loro che ancora le frequentavano parevano chiusi, per orgoglio e disperazione, in una setta... Fuori, ritrovai la città, che si è ricostruita contro di noi, con le sue luci, il suo moto notturno; una realtà che sembrava ignorarci. [...]»