«Lo senti questo riff? - disse
-. Ora lo chiamano swing, ma
è solo una piccola cosa che ho
inventato un sacco di tempo
fa». Questa frase che ammicca
dalla candida quarta di copertina
di questo libro raccoglie
l'essenza delle quasi 370
pagine che ricostruiscono la
vicenda di una delle figure più
emblematiche - e se vogliamo,
mitizzate - della storia del
jazz. Protagonista di questo
volume è Jelly Roll Morton, al
secolo Ferdinand Joseph LaMothe,
pianista di New Orleans,
personaggio il cui profilo
si muove ambiguo tra il
lascito musicale e la figura
provocatoria di un artista che
si autodefiniva «l'inventore
del jazz».
Mister Jelly Roll viene raccontato
in queste pagine - per
la prima volta (e meritoriamente)
edite nel nostro Paese
da Quodlibet nell'ambito collana
«Chorus» curata da Claudio
Sessa - grazie al lavoro di
Alan Lomax, grande etnomusicologo
scomparso nel 2002
che ha contribuito in maniera
fondamentale alla conoscenza
delle espressioni musicali di
matrice popolare che dal blues
arrivano al jazz. Lomax incontra
Morton nel 1938 in un piccolo
club di Washington e, colpito
da questo personaggio, gli
chiede un'intervista che si protrae
per settimane. Il lavoro di
approfondimento, raccolta e
indagine durò poi per decenni,
andando oltre la morte del pianista
sopraggiunta nel 1941.
Nel 1950 il libro era finalmente
pronto: in quelle pagine non
c'era solo il jazz, ma l'intreccio
di razze che permea gli Stati
del Sud, la vita irregolare fra
bordelli di lusso e saloon, la
nascita dell'industria discografica
e della cultura popolare
fra Otto e Novecento.
Come evidenzia Stefano Zenni
nella sua interessante introduzione:
«Il libro Mr. Jelly Roll è
stato per decenni l'unica biografia
mortoniana da cui
emergono con nettezza certi
tracci caratteriali dell'uomo.
Rafforzata da discutibili testimonianze
di altri colleghi, ha
modellato l'immagine dell'uomo
come un narcisista, presuntuoso
e soprattutto menzognero,
sempre pronto ad aggiustare
i fatti (a partire dalla sua
data di nascita) alle necessità
del proprio ego e della primogenitura
nel jazz e nel blues».
Al di là delle revisioni e delle
verifiche storiche delle quali è
stato oggetto, questo lavoro,
come rileva Sessa nella sua
«Nota», «è da decenni uno dei
"testi sacri" per chiunque si occupi
di jazz [anche perché]
l'ombra immensa di Jelly Roll
Morton si staglia su buona parte
di ciò che ascoltiamo, e non
solo perché ogni jazzista non
può far altro che continuare a
"suonare del Jelly Roll"»