Amalia, cara mia, mai
come in questi giorni
che precedono l'esilio
ho capito l'eccezionalità
del sentimento che mi unisce a te. È un insieme,
mostruoso quasi, di fraternità
un poco incestuosa, che non
soffre quasi del divieto, che
s'apparecchia serenamente al
distacco, e non s'oppone, favorisce
anzi, la fortuna del candidato...».
Così il 29 maggio 1909, Guido Gozzano ad
Amalia Guglielminetti, in una
corrispondenza iniziata un paio
d'anni prima. Esce adesso
per Quodlibet, col titolo Lettere
d'amore, ed è un libro magnifico
e avvincente, una manuale
di scrittura e un romanzo
di formazione, un esercizio
di intelligenza e retorica di
commovente perfezione. Nel
1907 Gozzano aveva 26 anni,
aveva appena pubblicato La
via del rifugio (una raccolta di
poesie) e scoperto di avere
una lesione al polmone. Morirà
di tubercolosi dieci anni più
tardi, dopo aver corso da una
parte all'altra del mondo, nella
speranza di lasciarsi indietro
la malattia. Mare, montagne,
perfino in India con una
crociera durante quasi due anni.
Sarebbe stato riconosciuto
come uno dei più grandi poeti
italiani, ma quando incontra
Amalia è solo un ragazzo, spiritoso,
intelligentissimo, alle
prese con la sua immensa ambizione.
Amalia Guglielminetti
aveva 28 anni, aveva
già scritto Le vergini folli, ed
era considerata la poeta italiana
più interessante. Un incrocio
tra Gaspara Stampa e
Saffo, scrisse di lei Dino Mantovani.
Era amica di Ada Negri
e viveva a Torino, con le
sorelle. Non si sarebbe mai
sposata e negli anni venti sarebbe
diventata l'amante di
Pitigrilli, scrittore allora molto
celebre e amato, scoperto
poi membro della polizia fascista
e alacre delatore di
esponenti della cultura. Quel
rapporto compromise per
sempre anche la fama di Amalia
che anche per questo, forse,
non riceverà le attenzioni
critiche e il successo di pubblico
dell'amico Gozzano.
Nati entrambi a Torino,
idealisti e talentuosi, partono
alla pari: si sostengono a vicenda,
si dichiarano stima,
consegnano l'uno per l'altra
gli scritti agli amici recensori.
Per qualche mese si rallegrano
di non essersi mai incontrati
di persona, perché i corpi
avrebbero turbato quella loro
perfetta sintonia. Poi però si
incontrano, e i corpi faranno
esattamente quello che ci si aspetta da loro: confusione.
Tanto che Gozzano, dopo
aver immaginato, descritto (e
con quale magnificenza!)
quello che avrebbero potuto
fare insieme, non appena si
trova a farlo davvero, si ritrae.
«La vita è ancora bella per chi
ha la scaltrezza di non prendervi
parte, di salvarsi in tempo».
E lui si sottrae, riparte
per l'esilio imposto dal suo male,
guidato sempre dalla stesso
faro: «Per me, camminando
dritto, con l'occhio fisso alla
mia meta lontana (O quanto!)
tutto è secondario e trascurabile,
gioie e dolori: tutto,
perfino la tua bellezza sulla
quale mi sono chinato un
istante, come su un fiore, al
margine del sentiero, ma dalla
quale mi separo tosto, perché
arresterebbe di troppo il
mio passo tranquillo...».
Sembra tutto a posto, sembra
uno di quegli amori che conosciamo,
finiti sul nascere
per inerzia e vigliaccheria. Tutto
sbagliato: è un amore di
poeti, un amore fatto di parole.
Una stupenda partita a scacchi,
un trionfo di ambiguità,
un continuo bluff. Amalia scrive
«l'amicizia sarebbe stata
forse tanto più dolce tra noi,
ma abbiamo avuto sin dall'inizio,
un momento solo di pura
amicizia? Io non credo, e
voi?». E lui: «Ho un gran desiderio
di morire, ma non sono
triste. Non ti amo, ho soltanto
la visione continua della tua
persona, dei tuoi capelli, dei
(tuoi) occhi, della tua bocca...
e non altro». Non dobbiamo
vederci mai più, dice. Ma nessuno
gli crede, né noi né Amalia.
E infatti lui corre da lei, e
poi va via di nuovo. «Sento in
fondo all'anima una specie di
fiera tristezza per aver saputo
essere crudele con me... io
provo una soddisfazione speciale
quando rifiuto qualche
bella felicità che m'offre il destino.
E quale felicità, amica
mia! Il nostro amore che sarebbe
fiorito con tutti i fiori
della primavera torinese!».
Vanno avanti così, per anni.
Fin quando Guido parte
per l'Oriente, in nave. L'ultima
lettera, dell'ottobre del
1912, la scrive al suo ritorno.
E ancora si stanno cercando.
Dopo non sappiamo. Anche
perché di questo superbo carteggio
non abbiamo più gli originali. È stato pubblicato
per la prima volta nel 1951,
da Garzanti, con la cura di
Spartaco Asciamprener, industriale,
titolare della vetreria
di famiglia a Milano,
amante delle motociclette
che però muore il 14 ottobre
del 1954 in un'incidente.
Non ha ancora compiuto quarant'anni,
la vetreria fallirà e
la sua immensa e sceltissima
biblioteca verrà venduta. Manoscritti,
libri rari e gli autografi
delle lettere di Gozzano
e Guglielminetti, che non sono
più stati ritrovati.