Recensioni / Tra «Italiano» e «Veneziano»: il cuore biblico di Francesco Giusti

Sull’impronta
che il tuo candido seno ha lasciato
al margine del lenzuolo
chino si disveli l’Eterno
per suggerne maggiore infinitezza
allo stesso modo in cui
lungo quelle lisce pendici l’ombra
senza nulla calcolare
continua a farlo.

(Perpetuarsi, da Quando le ombre si staccano dal muro, p. 53).

Come de infinii oceti
el temporal ga lassà arcipelaghi
de giosse su le foje
che riva a farghe le gatarigole
a la casa. El tempo i omeni
de i zorni , el poe dire
chel che’l voe,
cheo dei morti el torna, el passa,
el mete robe picie drio el vodo dei muri
e de refoli ‘na voçe
zo per l’ombrio de la casa.

(Temporal, da E torna l’autunno, p. 30) Da Francesco Giusti, E torna l’autunno<7i>>, «I poeti di Smerilliana», The Writer, 2016: versione italiana del medesimo autore: «Come di infiniti minuscoli occhi / il temporale ha lasciato arcipelaghi / di gocce sulle foglie / che arrivano a fare il solletico alla casa. Il tempo degli uomini / dei giorni, può dire / quel che vuole, / quello dei morti torna, passa, / mette cose piccolissime dietro il vuoto dei muri / e di refoli una voce / giù per l’ombra della casa» (p. 30).

Ci riferiamo al terzo volume della nuova Collana «Ardilut» di Quodlibet; i precedenti sono: I Turcs tal Friul (I Turchi in Friuli) di Pier Paolo Pasolini, prefazione di Giorgio Agamben, testo e traduzione a cura di Graziella Chiarcossi, traduzione in versi di Ivan Crico; e a In nessuna lingua in nessun luogo. La poesia in dialetto 1938-2009 di Andrea Zanzotto, con nota introduttiva di Giorgio Agamben, prefazione di Stefano Dal Bianco. «Ardilut» è la valeriana selvatica, il cui disegno è stato scelto da Pasolini per le pubblicazioni in friulano. Soltanto questi elementi esterni, e la presenza costante di Giorgio Agamben, costituiscono il significato innovativo di una Collana poetica fondata sulla diglossia, sul bilinguismo del ’900 poetico italiano. Scrive Giorgio Agamben che è «Forse meno noto – o comunque meno nota di quanto dovrebbe esserlo – che […] questa straordinaria fioritura [della poesia italiana del ’900] è stata accompagnata da una non meno imponente fioritura della poesia che per convenzione chiamiamo dialettale». Agamben cita Marin e Pedretti, Loi e Bandini, Pierro e Giacomini «e moltissimi altri», tra i quali citiamo subito Giacomo Noventa. «C’è – scrive sempre Agamben – una sorta di bilinguismo […] consustanziale alla poesia italiana […] rimasta fedele a quella diglossia che Dante, nel De vulgari eloquentia, ha iscritto come un’impresa alle origini della poesia italiana: il dualismo del volgare, ‘parlar materno’ che ‘solo e prima è nella mente’ e che si riceve sine omni regula dalla nutrice, e della lingua grammaticale che si apprende invece attraverso lo studio (ai suoi tempi, questa lingua-grammatica, inalterabilis locutionis idemptitas in tempi e luoghi diversi, era il latino»). Come scrive Andrea Zanzotto a proposito di Filò<7i>, il dialetto «ha in sé una goccia del latte di Eva», è «il fatto linguistico nella sua sorgività».
La raccolta di Francesco Giusti Quando le ombre si staccano dal muro presenta «una novità senza precedenti», afferma Agamben: «Giusti, nelle dieci poesie che aprono il libro, inverte la direzione consueta, che va dall’originale in volgare all’italiano, e ‘traduce’ in dialetto le sue poesie scritte in italiano. Il percorso abituale, dal dialetto alla lingua, riappare nelle dieci poesie che chiudono il libro».Nella parte centrale del volume, il poeta inserisce una quarantina di testi in italiano. Ne risulta una raccolta connotata da una pluralità di esperienze linguistiche che costituiscono l’approdo delle due precedenti raccolte del poeta veneziano: E torna l’autunno («I poeti di Smerilliana», The Writer, 2016); Senza nome. Pensieri nello spazio del cuore (Campanotto, 2017, prose brevi corredate da disegni a inchiostro del poeta, e con una nota di Giorgio Agamben). Il più recente libro di Giusti si connette a E torna l’autunno sul versante propriamente poetico, come sperimentalità lingua/dialetto e come atmosfera veneto-lagunare, autunnale, invernale; mentre si connette a Senza nome. Pensieri nello spazio del cuore sul versante delle istanze profonde, antropologico – religiose, che costituiscono il sottofondo motivante di un linguaggio che nell’«ipotetico, nuovo progetto di lingua», si radica in una percezione mobilissima dove il nesso pensiero-cuore significa l’innervarsi del pensiero nel cuore, senza filtri linguistico-istituzionali, in una «dialettalità» interna che si stacca dal reale come convenzione mondana per giungere a connotazioni icastiche (FINIS-potenza del mercato, merda al quadrato) consentanee all’alterità del cuore come «attitudine rivoluzionaria»: Mi sveglio, sento che per tutta la notte durante il sonno ha lavorato in me senza sosta la frase ESSERE RIVOLUZIONARI È UN’ATTITUDINE DEL CUORE. Istanza inconscia, potente attitudine del cuore, la «rivoluzione del cuore» come esclude la percezione convenzionale del mondo, così ne esclude la lingua, comprese le istituzioni del «letterario»; lingua che, per riprendere i rilievi di Agamben, si pone nel suo «asintattismo» esclamativo, interrogativo, dove la «coordinazione grammaticale è a tal punto interrotta, forzata da incisi, esclamazioni, interrogativi […] che la comprensione – che pure immancabilmente avviene – ha del miracolo». La percezione dell’incorporeo fa emergere un mondo sommerso, acquatico, prima autunnale, poi invernale, dicembrino, innevato: «Sono le acque prenatali», scrive Elenio Cicchini, che (come quelle distese sul fondo delle vere da pozzo di Venezia) anticipano, percorrono e ripetono l’intero corso della lingua fin che el ciaro da ogni sfesa el se spande: fin che il chiarore da ogni fessura si spande»: questo rinnovarsi «pre-natale» della percezione si intesse nella lingua e la estende dal «chiarore» delle fessure così aperte. In Quando le ombre si staccano dal muro, il Vangelo, la Madonna, Sant’Orsola, il Risorto, l’Eterno, la «scialuppa degli apostoli», serpeggiano come immagini epifaniche di una «sacralità del dire»: in Senza nome il movimento della natura e le riscoperte dell’archeologia coesistono in quella che Francesco Giusti chiama la responsabilità dell’esclamazione: ovvero la meraviglia di un mondo nascente dal rifiuto del mondo dominante (la potenza del mercato), in cui l’esclamazione, la meraviglia, lo stupore, derivano da un’interiorità ascetica che coglie una verità riemersa. Leggiamo alcuni passaggi di Senza nome in cui consiste il nucleo motivante della «rivoluzionaria» «attitudine del cuore»: l’uomo di Giusti fa riemergere il cuore, gli affetti, nelle atmosfere casalinghe, serali, acquatico-lagunari; mentre le convenzioni della brutalità mondana si estinguono; ed, estinguendosi, richiamano in Quando le ombre si staccano dal muro la stagionalità atemporale dell’inverno ascetico, che imbeve le parole di una delicatezza estrema, di un ritmo ‘perfettamente’ cadenzato:

«Non nell’esplicitazione, nell’enunciazione di esso, il pensiero – scrive Giusti – si innerva il dettato filosofico. Nel condividere la curvatura del giunco all’alzarsi del vento, si può riscattare la – dichtung – la perla da non dare ai porci. Così come nel silenzio si è custodita la sacralità del dire trattenendolo, nel respiro degli anacoreti la mano del poeta può smatassarlo e far rivivere la parola come l’archeologo trova l’archetipo nel coccio che spolvera per ridonare il ricordo agli occhi. NULLA MANCA ORA, SE NON CHE FILOSOFO E POETA SI PRENDANO LA RESPONSABILITÀ DELL’ESCLAMAZIONE, sia essa puntura di spina del roseto qui sotto o soltanto di questo l’interlocutoria timidezza con cui velocemente immobile il rosso della rosa passa al giorno.»

«La curvatura del giunco all’alzarsi del vento», «l’archetipo nel coccio», «la puntura di spina del roseto qui sotto o soltanto di questo l’interlocutoria timidezza con cui velocemente immobile il rosso della rosa passa al giorno» sono gli elementi che motivano, nel filosofo e nel poeta, la responsabilità dell’esclamazione: ovvero, l’esclamazione come dovere etico di una rinnovata percezione: non percezione di un fenomeno esterno, oggettivo, ma di un esperire volitivo (trattenere la sacralità del dire); oppure di un sentimento etico della natura: l’interlocutoria timidezza con cui velocemente immobile il rosso della rosa passa al giorno: dove nel velocemente immobile c’è la radice «naturale» dell’esclamazione (o la radice di una esclamazione «naturale»). La differenza rispetto al conformismo percettivo, privo di esclamazione, di meraviglia, di stupore, si manifesta nel seguente brano, in cui il tragico di un mondo che va «paurosamente a rotoli» si identifica con la non-percezione della sottigliezza ecologica della «fioritura dei roseti a gennaio»:
Certo che il mondo possa paurosamente andare a rotoli quando c’è gente che non si interessa alla paradossale fioritura dei roseti a gennaio. «Varda – allarmato le ho detto – el roser xe za pien de semi». «Ti ze pezo dei putei – lei mi ha risposto – te par ste qua robe da vegnirne a dir», quasi le si stesse lì per lì rubando il tempo.
La «rivoluzionaria» «attitudine del cuore» come si manifesta nella sottigliezza ecologica della «fioritura dei roseti a gennaio», così si manifesta nell’«ipotetico, nuovo progetto di lingua», mosso dall’etica guerresca di una «sola palpitante esperienza»:
Autore e pubblico allora, davanti a un nuovo ipotetico progetto di lingua, assieme nella meravigliosa e al contempo tragica situazione di coloro che, convocati dalla storia a un passo univoco, affrontano come guerrieri allo scoperto un terreno mai attraversato: balbettamenti, grida, stupore, incapacità-crisi, appunto. Morte e resurrezione, sola, palpitante esperienza.
Nella zona explicitaria di Senza nome leggiamo il brano che sigilla in senso biblico la potenza salvifica, pasquale, dell’«attitudine del cuore» da cui rinascono l’uomo e la parola: una Pasqua non in senso confessionale e istituzionale, ma una Pasqua della poesia: una Pasqua «dove «la Parola poesia risuonerà lungo le volte senza tempo dell’ANASTASI»:
Cristo, scardinando i portali infernali della Babele umana, scende nella fossa, afasia (apatia) delle anime, e trae in superficie i profeti dell’antico testamento, immagine ed essenza in sé della parola, ponendo un ponte tra pneuma, luogo dove il profetizzare nasce, e il profetizzato, luogo in cui l’annunciato, il detto, viene modellato, parola non più futuribile ma ormai futura, da luce e ombra fatta presente.
L’«immagine ed essenza in sé della parola» dalle radici bibliche, veterotestamentarie viene fatta risuscitare come principio di vita «da luce e ombra fatta presente»; dalla radice biblico-profetica, la «parola» deriva la incodificabilità come «scrittura»; e la connotazione «orale», «teatrale», «sonora» e «gestuale», nei cui confronti la «scrittura» è una «forzatura», una codificazione impropria della «tradizione»:
La scrittura in sé, credo sia stata fin dall’inizio una forzatura, una sfida, un andar su di giri rispetto alla tradizione fino ad allora orale (e teatrale), sonorità e gesto: la sfida dell’artista in campo letterario è portare vicendevolmente la parola scritta e quella orale (visibile invisibile) a dire l’una quel che non è possibile all’altra. E questo come ipotesi. Il punto è riuscire a tenere la macchina in carreggiata, su per giù.
La «sfida dell’artista in campo letterario» è, come scrive Elenio Cicchini, «L’aprirsi di quel ‘terreno mai attraversato’ cui Giusti affidava il proprio ‘progetto di lingua’: ‘balbettamenti, grida, stupore, incapacità-crisi’, ora colti nel loro senso proprio, esclamativo ed escatologico, di giudizio finale (Krisis) e attimo di salvezza».
Si tratta di una sfida che Giusti ha compiuto sperimentalmente nella dimensione testuale di Quando le ombre si staccano dal muro: dove la radice biblica della «Morte e resurrezione, unica, palpitante esperienza» diventa l’autenticità «esclamativa» della parola del cuore, nell’auroralità germinale di una innocenza percettiva, primordiale. Se, come scrive Elenio Cicchini, «lingua e poeta ora s’incontrano», così interprete e poeta non possono che incontrarsi nell’evento di una parola-cuore, secondo una ermeneutica consentanea alla poesia translinguistica di Giusti. Portiamoci, prima, nella zona incipitaria, pre-biblica di E torna l’autunno; leggiamo Tornati a sera:

Come, sfilata l’ombra di dosso,
nella fecondità degli affetti
nella poltrona di casa,
domestici, riprendere fiato
quando l’acidità
dei tempi corrode sera
e serratura? (p. 9).

Gli «affetti», che prenderanno vita dal cuore biblico, sono oppressi dal mondo brutale. Da rilevare, intendendo rifarsi all’«asintattismo» di cui dice Agamben, la posizione di «domestici» che grammaticalmente riferito ad «affetti» si pos-pone a «poltrona di casa»: ma si tratta di uno scoordinamento che, ricorrente in variabili modi nella testualità di Giusti, assorbe il molteplice , il pluridimensionale nell’olistico; mentre il singolare si estende nel molteplice, secondo una tendenza dialettale che dilata la percezione, senza focalizzarla sull’oggettivo, ma avvolgendola in un’ombra proiettivo-emotiva. D’altro canto in La parola, la casa, gli affetti c’è una saldezza intrinseca dei termini parola/anima/corpo/casa:
La parola è la parola
anima e corpo come la casa è la casa
dove la sera si esplicitano gli affetti (p.24).
E prima:
È velleitario
chi pretende dalla parola nuda,
senza anima, velleitario, tuttavia,
è chi comunque vuole
dall’anima della parola la parola.

Prima della «rivoluzionaria» «attitudine del cuore» non può esserci anima della parola, per cui

…la mia finestra, ve lo dico,
respira su un cortile di case storte
sotto il cui perimetro, come cunei, incastro
accenti e virgole per evitare la catastrofe (p. 36).

Qui, la «parola», costituita di «accenti» e «virgole» non è la parola alternativa del cuore. Soltanto in Vangelo, tra i primi testi di Quando le ombre si staccano dal muro, la parola diventa parola del cuore: la parola si apre alla dimensione dialettale dove trova l’esteso, il molteplice. Qui l’intera galleria di parenti si trasforma in l’intiera fila de parenti, lisiere ombre sora el muro (p. 19); altrove: e l’acqua del vaso / marcendo i gambi si fa carico / della sofferenza annodata / come annodato è il suo fazzoletto / per tenere in vita orizzontale / in giro per casa il ricordo diventa e l’aqua del vaso / marsendoghene i gambi se tol in sorta / quel vegetal lento sofrir, el gropo / co fa el stesso sul pinço del fazoleto, / streto, per tenir in vita, distirà / el ricordo sora la tola, pan, formaio, fregole / de sofrito de cusina de tanto in tanto stelà / goto che par pien, ma che – poro – / de vin xe inveçe incragnà (Poesia statica orizzontale, p. 26; Ricordo orizontal, p. 27). Citiamo di nuovo Elenio Cicchini: «[…] la tensione tra l’esclamare e il dire si traduce, infine, nella stessa relazione che intercorre tra dialetto veneziano e lingua italiana. Il dialetto […] non costituisce semplicemente una lingua accanto alle altre (la domestica, la confidenziale); ma a esso spetta precisamente il compito di evidenziare dall’interno della lingua ciò che già sempre cade fuori di essa. Così, se l’esclamazione rappresenta l’ombra riflessa sulla superficie dell’enunciato, ora questa si stacca, si alza e cammina per proprio conto». Vediamo i passaggi da In a Metarse in moto: Il tempo di un calcolo / snocciolato sulle dita / questo passare come pettine / e far discrimine / Buio / Nota a margine marciapiede disastrato diventa Longo de far de conto / rosario masenà sui dei / sto passar come petine / a far discrimine. / Anatonomia stradela destuada dove il tempo è assorbito nel far de conto come rosario; e il marciapiede disastrato; e il marciapiede disastrato diventa l’esclamativo Anatonomia stradela destuada. Se passiamo a Stato delle cose, la parte in lingua, troviamo un italiano motivato dalle istanze estensivo-esclamative del dialetto: Nevicata al paese (p. 42) è l’incarnazione della parola/poesia. Giusti ci esime dal ricercare configurazioni linguistico-stilistiche, in quanto la lingua della poesia è un movimento interno della percezione che «precede» la scrittura. Leggiamo: Sul palcoscenico dell’occhio / recita un grigio pastello che annuncia neve / mentre la parola neve sta coprendo già / la parola campo nella parola poesia: parola e percezione si identificano visivamente, in una sequenza di immagini scenico-pittoriche: E quella poesia? Nel negozietto / dove la coppia di anziani sta ammirando / le scarpe nuove nella specchiera / dove nevica fino a quando / le scarpe non scompaiono e / nella parola poesia non vengono / a lasciare scomposte tracce irrequiete / i due cavalli che avevano abbattuto la staccionata / in fondo là dove finisce il paese / sotto il muro del piccolo campo santo nel quale, / alzandosi dalla candida coltre che addormenta i nomi, / un nitrito da anni in pace non finisce / con il riversarsi fumante nella vitrea scena di tanta // considerevole rarefatta poesia. Siamo indotti a non interrompere la sequenza testuale dalla densità dei passaggi sensibili-tattili, per cui il campo neve/poesia, che diviene «campo santo», si crea nel movimento delle percezioni come «rarefatta poesia», secondo una «dialettalità» percettivo-estensiva: è una poesia che si fa, che si parla senza cogenze formali. In Sporto sul mondo (p. 44), c’è uno sguardo retrospettivo del cuore umano su quel mondo distrutto come destino inferiore, dalla cui distruzione ritorna, rinasce il «cuore»: sguardo retrospettivo che diventa lo sguardo del Cristo: Si risveglia nel cuore umano / la misura di una sottrazione senza alterigia, / mette radici tra ciò che siamo e i muri che abbiamo costruito: la «sottrazione senza alterigia», l’umiltà fondamentale del «cuore umano» si radica tra la dimensione dell’essere (ciò che siamo) e la dimensione del negare (i muri che abbiamo costruito): cade sanante lo sguardo del Cristo / qui conosciamo la felicità che nel frattempo accontenta. L’incipit de Lo spirito della montagna, qui è interrotto da un «suono», riconosciuto dal «cuore» come traboccante d’impellenza: Ancora fioco, adagiato, è / in fondo al suo stesso grembo, il campo bianco / di bianca timida brumata misura: il sopore è mosso dal «cuore» che riconosce «colui che torna»: squillo che tira in basso me, / poeta della memoria rattoppata con i denti / nella quale vive colui che torna, colui che ama / e amando prega, come colui che pregando / a conti fatti ama (p. 48). In Amarsi in autunno e in Aspettando l’anno troviamo una Venezia «laica», settecentesca, casanoviana. Leggiamo:

Venezia d’autunno.
Con piedi di malinconica ora sale
sul piccolo ponte che ha veduto
giovani bocche fare capriole di baci,
dai bicchieri dimenticati
la rossa allegria di una luce dispensatrice di ultimo tepore
prende e porta via dagli umani nidi. Rimane posto per
parole che tornano da altri lessici, sponde, rive lontane.
E s’aprono stelle con il dondolante canto del remo
nelle tasche di chi ha dolcezza d’occhi
da rimembrare. Poi i fanali s’appicciano, uno e poi uno,
e c’è chi si trova per mano nel vuoto buio
delle vetrine. Si ammantano del colore
delle foglie cadute i manichini lì dentro,
muti nei gesti dopo l’amore (p. 49).

Qui le metafore (piedi di malinconica ora / rossa allegria / luce dispensatrice di ultimo tepore / capriole di baci) si connotano come fenomeni atmosfericamente dilatati, «reali» nella non-pertinenza oggettiva. Si tratta di una poesia/percezione e non di una poesia/metafora: ovvero, la percezione è «dialettalmente» intrinseca alla metafora. Si crea una modulazione istante per istante secondo l’atmosfera veneziana che si innerva nelle cose, espandendole tonalmente, musicalmente. Altrove (Aspettando l’anno) è la percezione della continuità del tempo che sottende l’immagine: Vecchia nuova città del disincanto: la città che sa è quella degli spettrali immobili appostati lampioni / ospiti di scura acqua immobile sanno: neanche / la gondola silente, nera lignea virgola / che all’antica cadenza del remo / porta Casanova lontano / dalla protervia del vecchio mondo che perde la mosca, / increspa più l’ultimo foglio / del calendario (p. 51). La coscienza, il «sapere» è un sapere della città immateriale, tonale, atmosferica, dove il tempo viene attraversato. Dalla dimensione atmosferico-laica della Venezia autunnale, serale, si passa alla dimensione sacrale, angelicata dell’immagine pittorica del Carpaccio:… sbuco / nella stanza dove il Carpaccio / ha lasciato Sant’Orsola / nel suo letto. Ora a farmelo capire / c’è la tiepida forma del suo giovane corpo / impressa nelle lenzuola. una angelicata: lama di luce terrena entra: dalla camera accanto… (p. 50). È sempre la percezione a prevalere: Carpaccio non ha «dipinto» Sant’Orsola, ma l’ha lasciata nel suo letto, come rivela fisicamente la tiepida forma del suo giovane corpo / impressa nelle lenzuola: che richiama Perpetuarsi dove il fenomeno fisico passa all’Eterno, e ne assorbe «maggiore infinitezza»: Sull’impronta / che il tuo candido seno ha lasciato / al margine del lenzuolo, / chino si disvela l’Eterno / per suggerne maggiore infinitezza / allo stesso modo in cui / lungo quella liscia pendice l’ombra / senza nulla calcolare / continua a farlo. (p. 53): l’impronta del candido seno e l’ombra della liscia pendice si richiamano nell’immaterialità di impronta/ombra che, staccandosi dalla materia, continuano il tempo nell’Eterno. In Promessa, tempo e spazio non conoscono limiti fisici; e fuoco, vento e neve costituiscono la cosmologia, l’antropologia della speranza, dove l’antico e il futuro concomitano: A parecchie cose ci riporta la baldanza di un fuoco, / ma da essa in particolare forgiati, / mangiato il pane di una scherzosa discordia, / con la lingua spingevamo il seme del vento / per poter sentire / crescere e stormire / un giorno qualsiasi sotto la neve dentro di noi / la forza di un antico, / lieve sentimento futuro (p. 56): il nucleo è costituito dal seme del vento, dal vento/movimento che porta il seme a rinascere sotto la neve dentro di noi, in un «noi» ri-diventato fertile come la terra sotto la neve. Tra le più intense poesie di Francesco Giusti, in quanto pienamente «risolta» tra metafora e percezione, tra morte e vita, tra natura e umanità, tra sacrificalità e riscatto, c’è A lezione di dicembre. Leggiamo:

S’è spogliato l’albero con cui parlo
per terra una camicia di foglie morte uno
gliela lava. Ma ci sarà chi un’altra
gliene regalerà per un di’ di primavera, ci sarà? Non osa
il vento scavalcato il muricciolo spostargliela,
benché discolo ha delle remore,
troppo fresco è il dolore, il simbolo
che a spoliazione compiuta nell’aria
di nobile rinuncia resta.
Vestito di nuda costrizione vero
è l’albero, groppose dita
negli scomparsi voli, immote. Adorno
di regale nudità senza far lezione insegna
a me che alla finestra vivo come
su di un duro banco scolaro a scuola (p. 63).

C’è una permeazione intrinseca tra la spoliazione naturale e il dolore umano (troppo fresco il dolore); tra ascesi materica (Vestito di nuda costrizione) e verità (vero è l’albero); tra naturalità ed eticità (Non osa il vento scavalcando il muricciolo spostarglielo, / benché discolo ha delle remore): questa accettazione del dolore, questa nudità interna dell’albero ne fa, come elemento della natura, un maestro di umanità. Riferiamoci a Ricorrenza , il cui incipit è un’affermazione tanto irreale quanto vera: Stanotte è tornata/a dormire a casa mia madre/lasciando meno affollato il cimitero. E continua: Nessuno può capire questa storia/se non per i fiori che ne lastricano il cammino. Continuiamo la lettura che «si spiega» da sé, con partecipazione da parte del lettore, nella naturalezza «presente» di evento della memoria: Vestita di nero / quel giorno, una bambina; / era scalza, portava primizie alla maestra. Poi, uno strappo dolcissimo: Ora tenera arresa forza di un’ombra, / aspetta che il sole di nuovo baci la terra, / che la dolce velatura dell’aria / esplodendo costruisca cupole d’oro / all’eterna basilica (p. 66). Se volessimo fare critica letteraria, impossibile per un autore «incommensurabile» secondo parametri istituzionali come Giusti, dovremmo notare la riuscita «classica» di Ora tenera arresa forza di un’ombra: ma questa è un’immagine in cui si fondono senza residui l’arrendevole tenerezza con la forza di un’ombra: un’ombra che si è «staccata dal muro», un’ombra reale, non metaforica; un’ombra vissuta, spirituale, interiore, un’ombra che realizza lo «scomparso» e l’«avveniente» di Agamben, all’insegna dell’«eterna basilica». Il cuore religioso di Giusti trasferisce l’immagine della madre in ombra vivente, in «forza di un’ombra»; l’immagine diventa vivente realtà, staccata dal mondano; vivente realtà dell’ombra, forza spirituale (in critica letteraria si direbbe che qui si precisa la «poetica dell’ombra» di Giusti). Non vi è nulla di più realmente vissuto della spiritualità di Giusti, che ritorna esplicitamente al biblico nei riferimenti al «roveto ardente», in La partita; e a Maria Maddalena (in Sera tardi d’inverno): Il roveto ardente, esclamativo / ti chiamò per l’ultima volta in vetta al giorno. / Volgendo il capo allora è stato che rivedesti / a chiari brani il tuo essere nell’ammatassamento degli anni, / stagione dopo stagione, nell’accattivante colore, radice. / Venivi profetica alla finestra come civetta/pronta al verso sul ramo. / La morte aveva tempo, / la beffavi lisciandoti i capelli che profumavi / con gli amati fiori di campo: c’è una trasformazione dall’«ammatassamento degli anni» alla «profezia»; c’è un’inversione del tempo che sconfigge la morte. «Lei» è al di fuori della «partita» Lei / sedeva regina delle nevi, / nell’impassibilità delle mani / che, da non crederci: specchio, le andava in frantumi / il vuoto / mazzo di carte (p. 68). L’evento epifanico di Maria Maddalena si compie in un’atmosfera glaciale che si trasforma in atmosfera quotidiana, per cui si rende quasi l’atmosfera di un incanto mirifico: Il castello della regina ha l’ascensore di ghiaccio; / i corpi di chi ci va cristallizzano. Scende / Entra dopo che l’autobus è ripartito. / È Maria Maddalena. È sullo scalone / sull’azzurro ghiaccio, ci chiama-siamo / i chiamati. È Maria Maddalena, / ha incontrato il Risorto, ci ama, / ci accompagna fuori di nuovo / in superficie verso la fermata / del giracittà (p. 69). C’è una metamorfosi continua nell’epifanizzarsi dell’immagine. L’incrinatura dell’imprendibile, dell’inattendibile, dello «stregato» connota la parte explicitaria, dove i testi in dialetto vengono resi in versione italiana. Ad esempio: aqua zala / viola, verde, qua çeleste, aqua / che vien zo benedeta, che ne benedisse / come fa de domenega el prete (‘Ndemo ne la cativa stagion, p. 84); oppure in Strigheria: Ma xe sta sempre scuro qua, e lo xe. / Un scuro fisso, longo, basso, / pronto a scancear e qualcosa anca a ingiotir. Sparisse / infati da la cucia la coa del can, sparisse i osei, i nei, / i pie, le sate de le tole, e, varda un fià, da no / crederghe, perfin le man (p. 86). La percezione (e la vogia de dir) entra in crisi per eccesso di intensità: Ma se desfa / la vogia de dir e de più quela de sonar / e le nuole le se smola in pianzer viola, /…/ qua viola stavo, qua viola scoltavo: e qua viola vegnivo a sentarme / per sentirme sentà, scritor de marmo / che scrive de ’na carega de marmo/in cima a scalini de marmo (Scriver de quelo che voria scriver. E in Concerto strigà: a vardar dai veri che sona el se imbambola / per el longo bater che no se desbriga. El sa lu che megio xe vardar / che ’l scoltar drento el te consuma (p. 92). L’intensità «atmosferico-tonale» di Giusti ritorna al «vardar» dal «scoltar drento»: giunto al dialetto dall’esperienza della lingua – in cui era riuscito a dire «dialettalmente» una verità – il poeta rientra in una verbalità dialettale, dilatabile oltre i limiti del sensibile.

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