Pensare l'Europa"... Ci riusciremo mai? I
I professionisti del pensare, i filosofi, contano
sul loro particolare modo di pensare e parlano
di Europa come "patria del logos" e della democrazia, scambiano la "polis" greca con le società
moderne, gli stati attuali, le economie e i
mercati globali. Se invece consultiamo letterati
e storici della cultura, allora si parlerà di
umanesimo, laico o religioso, della loro eclisse
o fine, della loro gloria o della loro sconfitta storica.
Ma il cosiddetto "uomo comune", i cittadini,
i consumatori, gli elettori, gli utenti di servizi,
femmine e maschi, insomma i più diffusi e
numerosi tipi di esseri umani, riescono a pensare
l'Europa? Dove la trovano, dove la incontrano,
dove la vedono nelle loro comuni e limitate
esperienze?
Come lettore di giornali e riviste, cerco anche
io di capire e pensare l'Europa, ma sono
spesso in difficoltà. Secondo alcuni filosofi,
per esempio quelli che compaiono nel volume
L'Europa di Simone Weil. Filosofia e nuove
istituzioni (Quodlibet) a cura di Rita Fulco e
Tommaso Greco, prefazione di Roberto Esposito,
introduzione di Giancarlo Gaeta, l'Europa
è "di fronte a un appello epocale, al quale
occorre rispondere filosoficamente prima
ancora che politicamente", scrive Rita Fulco.
Nel suo saggio, che apre il volume, trovo riferimenti
a una "filosofia della migrazione"
della filosofa Donatella Di Cesare che
riflette sul tema dello "straniero" attraverso
il pensiero di Levinas, Freud, Carl
Schmitt e Jacques Derrida. Trovo anche
frasi come questa: "È innegabile che nell'ultimo
decennio in Europa sia stato propagandato
l'aspetto minaccioso di quella
che è stata definita 'l'invasione' dei migranti,
i quali, di conseguenza, sono stati catalogati
come 'nemici'".
Credo che con questo modo di pensare ci si
renda facile il pensiero e la vita. Evidentemente
quella dei migranti non è un'invasione
né bellica né barbarica; ciò non toglie che sia
un problema per l'Europa e la maggioranza
degli europei non propriamente intellettuali,
che hanno di fronte per la prima volta,
dopo secoli e secoli e nel corso di una crisi
economico-sociale acuta difficilmente
governabile e superabile, l'arrivo non arrestabile,
soprattutto dall'Africa e da
guerre mediorientali ma non soltanto, di
migliaia di persone traumatizzate dalla
sventura, dalla violenza, dalla mancanza
di lavoro, cibo, sicurezza, assistenza sanitaria
e comunità.
Le resistenze che si manifestano in tutti i
paesi europei nei confronti di un'ondata migratoria
incontrollata non è, se non in casi
estremi e patologici "odio per il nemico": è
soprattutto ansia e timore circa la capacità
europea e nazionale di accoglienza reale e di
vera integrazione sociale e culturale di grandi
masse provenienti da mondi in tutti i sensi
remoti. Si dice che le migrazioni verso l'Europa
dureranno chissà quanti decenni e che
quindi si tratta di un fenomeno, "epocale".
Ma subito dopo si dimentica che questa lunga
durata del fenomeno significa grande quantità
numerica e mutazione dell'assetto quotidiano
e dello stesso scenario fisico delle nostre
società. Come si può ragionevolmente
credere che tale entità del fenomeno non susciti
ansie sociali in un'Europa già poco capace
di governare se stessa?
Il libro sulla Weil e l'Europa è interessante
perché segnala una giusta e concentrata attenzione
sul pensiero di questa autrice, troppo
a lungo filosoficamente trascurata e sottovalutata
proprio dai filosofi. Ma temo che per
l'Europa sia tardi per ispirarsi moralmente,
politicamente, giuridicamente alle riflessioni
weiliane dei primi anni Quaranta del secolo
scorso. La "logica economicistica in tutti i
settori della vita pubblica e privata" (come
dice Gaeta) è la robusta, inamovibile radice
della nostra Europa unita e disunita, non meno
che dell'intero mondo. Il pensiero della
Weil è stato un corpo estraneo nella filosofia
professionale del Novecento: attualizzarlo e
attuarlo politicamente oggi temo che sia un'illusione,
nonché un'esibizione, accademica.
Se da un libro di filosofia passo a qualche
articolo di giornale, incontro per esempio
due politologi, Gianfranco Pasquino e Sergio
Fabbrini. Il primo (sul Corriere del 14 luglio)
difende la democraticità delle istituzioni europee
e delle procedure di legittimazione, diretta
o indiretta che sia. Le sue ultime battute,
però, aggiungono qualcosa di non secondario:
1) "Quando sono i cittadini europei che
ritengono che di democrazia in Europa non
cene sia abbastanza e che funzioni male, allora,
comunque, dobbiamo preoccuparci. (...)
E' un problema di esagerata apertura dell'Unione
a tutti i numerosi e potenti gruppi di
pressione nazionali e transnazionali che difendono
interessi particolaristici"; 2) "L'Unione,
che è democratica, deve diventare più
trasparente esplicitando le posizioni dei decisori,
i conflitti, le proposte di soluzioni alternative.
Renderebbe possibile valutare le
responsabilità del fatto, del non fatto e del
malfatto, per premiare o punire rappresentanti
e governanti".
Insomma: non ci si può accontentare delle
procedure formalmente democratiche se le
responsabilità effettive sono occultate. Non è
poco. Una democrazia che non abbia i mezzi
per autocontrollarsi e autocorreggersi è ancora
tale?
Il discorso di Sergio Fabbrini (sul Sole 24
Ore del 21 luglio) è geometricamente labirintico
nel commentare che cosa è avvenuto con
l'elezione di Ursula von der Leyen alla presidenza
della Commissione europea. Si chiede
Fabbrini: "Come mai un candidato presidente
europeista non ha ricevuto i voti di molti
parlamentari europeisti?". La risposta è che
il Parlamento europeo presenta ormai due
divisioni diverse ma sovrapposte che confondono
la vista: alla tradizionale divisione fra
destra e sinistra si aggiunge ora quella fra europeisti
e sovranisti. La von der Leyen è
un'europeista conservatrice che ha ricevuto i
voti di destra di sovranisti polacchi, ungheresi
e italiani e ha avuto i voti della sinistra italiana
senza avere quelli dei socialdemocratici
tedeschi. La democrazia in generale e
quella europea in particolare sono fenomeni
complessi perfino per i politologi. Le "masse"
scolarizzate male e con gli smartphone
nella testa, è facile che si distraggano e si confondano.
Succede anche a me, che quanto a tele-informatica sono a dieta stretta e traffico
solo in carta stampata. Bisognerebbe far leggere
Simone Weil ai parlamentari e ai presidenti
europei? C'è qualcuno che riesca a immaginare
una cosa simile?
A questo punto sento il bisogno di un intellettuale
e scrittore che mi aiuti a mediare fra
giornalisti e filosofi. Allora riprendo in mano
un opuscolo del tedesco Hans Magnus Enzensberger
uscito da Einaudi nel 2013, " Il mostro
buono di Bruxelles, ovvero l'Europa sotto tutela",
in cui leggo queste righe: "L'Ue non domina
attraverso il comando, ma attraverso le
procedure (...) non si dà il compito di opprimere
i suoi cittadini, bensì di omogeneizzare,
possibilmente in modo tacito, le condizioni di
vita sul continente. Qui non si costruisce una
nuova prigione per il popolo, ma un riformatorio
che provveda al rigoroso controllo dei
suoi protetti. L'ideale è che la vita dei suoi pupilli
venga regolamentata a livello centrale e
standardizzata da un regolamento interno
ben articolato in numerosi paragrafi, che va
dalla normativa degli affitti alla definizione
di una sana dieta quotidiana. La rieducazione
di 500 milioni di persone è comunque una
fatica erculea, con la quale si sono sfiancati
vari e opposti regimi. E non è detto che i nostri
attuali tutori siano all'altezza".
Che cosa sono i sovranismi e i populismi, se
non prevedibili reazioni di rigetto a questa
tutela? La realtà è sempre piuttosto sorprendente,
benché sia sempre governata da rapporti
di causa ed effetto.