L'ultimo tabù rimasto, si sa, è quello della morte. Che infatti resta avvolta nel silenzio della quotidianità. Ospedalizzata, nascosta, rimossa, la livella piomba poi nelle nostre vite come un'estranea assoluta. Ma non sempre è stato così. Per gli antichi, la morte era parte integrante della vita, suo naturale compimento,come ci ricorda Dino Baldi nel suo "allegretto ma non troppo" dedicato alle Morti favolose degli antichi (Quodlibet): «Tutti i potenziali defunti di un certo livello la pianificavano accuratamente fin da prima che si verificasse, cercando di corrispondere in tutto e per tutto all'aspettativa che si era creata nella loro cerchia sociale. Una buona morte a Roma era una morte rappresentabile e raccomandabile, segno di distinzione familiare e strumento di propaganda politica e filosofica».
Le cose però non sempre andavano nella direzione auspicata dal morituro e, malgrado una accurata preparazione, la morte poteva presentarsi in forme tutt'affatto diverse. Si prenda Eliogabalo, uomo di un estetismo perverso e dalla sessualità sfrenata. All'imperatore avevano predetto una fine violenta e lui si preparò di conseguenza. Immaginando di impiccarsi con funi di porpora e seta, oppure di gettarsi da una torre su un tappeto di «tavole dorate e tempestate di gemme». Peccato che il destino prevedesse un altro copione: rintanatosi in una latrina assieme alla madre, Eliogabalo venne decapitato e il corpo trascinato per le strade di Roma.
Una lezione chiara: mai dilazionare troppo il suicidio, scelta all'epoca piuttosto diffusa e individuata come supremo "atto di volontà" per chiudere al meglio l'esistenza. Anche se non fu questo il caso, pare, di Lucrezio, di cui poco si sa e quel poco non è certo: «Impazzì dopo aver bevuto un filtro d'amore procuratogli da una donna malvagia e scrisse il Dererum natura nei rari momenti di lucidità (per intervalla insaniae)».A quarantaquattro anni, quell'immenso poeta e pensatore si uccise senza aver rifinito la sua opera, peraltro ignorata dai suoi contemporanei, tanto che si è parlato di una "congiura del silenzio".
Anche la sventurata parabola esistenziale di chi fu senz'altro uno dei massimi geni dell'umanità, dà da pensare sull'intimo rapporto tra la vita e la morte. Considerare la seconda come parte integrante della prima, dovrebbe indurci a dare meno peso a un volatile successo mondano che proprio Lucrezio non conobbe. Pur meritandolo più di ogni altro.