Recensioni / Nella lingua l’unica identità degli italiani

Ancora pochi giorni fa, rispondendo al presidente francese Macron che ne lamentava l’assenza a una riunione europea sul tema scottante dei migranti, il ministro dell’interno Salvini affermava che «gli italiani non sono più disponibili ad essere colonia di nessuno, essere servi di nessuno, essere schiavi di nessuno.» L’appello a una identità degli italiani viene definita a partire da un vittimismo che ha radici molto lontane nella storia. Questa attitudine non se l’è inventata Salvini. Già Renzi aveva insistito sull’italianità come elemento positivo, con l’intenzione di voler in qualche modo rispondere a una certa auto-percezione negativa che è onnipresente nel discorso pubblico degli italiani e che si realizza, talvolta, in una esterofilia provinciale per la quale qualsiasi paese estero rappresenta un modello “migliore”: migliore per definizione, perché l’Italia è un paese “mancato”, per sviluppo e infrastrutture, e al rimorchio dei paesi “civili”. Renzi aveva puntato sul Made in Italy e sul Rinascimento come brand che dimostrano, invece, che l’Italia è vincente. L’attuale contesto è, si dirà, meno ridanciano ed ottimistico, e tende piuttosto a compattare l’Italia sulla paura del fenomeno migratorio, descritto non a caso come un’invasione.
Nel libro Italia senza nazione, assieme ad altri otto studiosi di letteratura, di filosofia e di storia, abbiamo provato a smontare questo discorso “identitario”, cercando di valutarlo, appunto, come un “discorso”, una costruzione sociale e culturale. Non era un’operazione facile. I discorsi culturali sono sempre sistemi simbolici in tensione; ma quello sull’identità italiana sembra una tensione insolubile. È il risultato, allo stesso tempo, della già ricordata auto-percezione negativa e di una immagine positiva diffusissima fuori dei confini nazionali. Pensiamo al «cervello in fuga» di cui, a più riprese, discutiamo con grande sofferenza: l’intellettuale esiliato ed apolide trova fuori d’Italia lo spazio per sviluppare il proprio talento. L’italiano che è apprezzato fuori e il cui talento risulta impossibile da contenere nello spazio del paese (cerco di decodificarne l’immagine diffusa, senza pronunciarmi sulla sua fondatezza) non illumina a ritroso il capitale culturale che si è formato in Italia?
Secondo il poeta Umberto Saba, la storia d’Italia non avrebbe ospitato una rivoluzione perché non fondata su un parricidio (l’uccisione del padre, e dunque del vecchio) ma su un fratricidio (e il riferimento è qui all’uccisione di Remo da parte di Romolo). Saba conclude: «Gli italiani vogliono darsi al padre, ed avere da lui, in cambio, il permesso di uccidere gli altri fratelli» In questa feroce auto-analisi ci sono le coordinate di quella che gli studiosi contemporanei chiamano la “differenza italiana”, ovverosia un pensiero, prodotto in questo paese chiamato Italia, che ha aspetti diversi, appunto, dai sistemi di pensiero di altre nazioni. La difformità più evidente consiste nel fatto che tale pensiero, a differenza di contesti come quello francese per esempio, si è formato in assenza di istituzioni politiche forti e consolidate. In questo quadro, è stato il discorso linguistico e letterario a costruire, immaginare, depositare elementi di identità, inducendo i letterati – pensiamo a Machiavelli, per esempio – a operare una sorta di supplenza nei confronti dell’autorità politica.
Per guardare a questa particolare italianità bisogna posizionarsi su un punto di vista esterno, come se guardassimo a una identità altra e lontana da noi. La scommessa della nostra riflessione consiste proprio in questo sguardo “da lontano”, che ci ha permesso di capire alcune cose, pur procedendo, talvolta, a processi dolorosi. Il problema – o se si vuole, la potenzialità di cui siamo ancora poco consapevoli – è che questa identità, che è andata formandosi nei libri di poesia, nelle prose, nei romanzi e nei trattati, è tutt’altro che lineare e chiusa. Come nelle parole di Saba, è invece ferocemente autocritica e difficilmente addomesticabile in un discorso nazionale. La sua lingua è plurale, aperta, caratterizzata da quel rapporto con l’esterno che si realizza nei volgarizzamenti e nelle traduzioni.
Ossessionata dall’italianità ma dotata di scarsa coscienza nazionale, la cultura italiana oscilla tra particolarismo e cosmopolitismo; per riprendere Gramsci, il popolo italiano, proprio perché privo di una solida prospettiva nazionale, è un popolo che vuole “collaborare a ricostruire il mondo economicamente in modo unitario”, senza frontiere, dunque ospitale. I letterati-supplenti, che hanno immaginato l’Italia, hanno agito come antropologi tenebrosi. Secondo Alberto Arbasino – altro grande nume irriducibile a qualsiasi nazionalismo eppure autore di un romanzo intitolato Fratelli d’Italia - nel loro rifiutare di dirci «come siamo belli e bravi, furbi, operosi, “dritti”, celebrativi, in preda alla tenuta e alla maturità e alla crescita», hanno rifiutato, per nostra fortuna, di essere mistificanti. Ciò vuol dire che l’italianità si ritaglia uno spazio differente sia dalla brandizzazione dell’italianità alla Renzi sia dal ripiegamento identitario alla Salvini: entrambi processi risultanti, evidentemente, dalla globalizzazione, alla quale il pensiero italiano si presenta costitutivamente alternativo. Ospitale, estroflesso e tendente al “fuori”, esso non può che disfare qualsiasi discorso di identità (italiana o altra che sia).