Recensioni / NEW YORK

Sedersi su una panchina e disegnare Central Park come fosse una Piazza del Popolo

Per capire una città il punto di vista migliore è senz?altro quello del forestiero: Montaigne o anche un Bruno Barilli qualsiasi, forti del loro disinganno hanno potuto descrivere territori altrui con più profondità e distacco degli osservatori indigeni, ma c?è un solo modo per impadronirsi completamente di un luogo specie se urbano: disegnarlo. Amedeo Modigliani, con grazia tutta livornese, ripeteva che disegnare è possedere, un atto di conoscenza e di possesso più profondo e concreto del coito. L’architetto Matteo Pericoli sembra avergli voluto obbedire, in due atti. Dapprima, in ?Manhattan svelata? (2001) si era azzardato a srotolare lo skyline di New York così come si lo si può vedere dalla Circle Line, il battello che circumnaviga l?isola in tre ore. Quindi, non pago delle parole di Le Corbusier secondo cui per capire una città è sufficiente osservarne il profilo dal mare, Pericoli si è voluto tuffare nel centro vuoto, nel parco, che è l’altro grande spazio aperto da cui osservarla e capirla in silenzio, appunto «Il cuore di Manhattan», uscito di recente da Bompiani.
E come se non straniandosi è possibile guardare la belva metropolitana e misurarne correttamente i volumi senza venire sopraffatti dai suoi rumori e dai suoi ritmi ingombranti? Anche per questo ha ragione Paul Goldberger, critico del New Yorker, nel dire che Pericoli disegna Nuova York come fosse Ascoli Piceno, sua città d’ascendenza famigliare, come se Central Park fosse una Piazza del Popolo pavimentata in erba e il cui colonnato constasse di alberi anziché di pilastri in travertino ascolano. In effetti New York è l’unica metropoli ad avere un centro/baricentro completamente vuoto, uno sterminato giardino concepito nella tradizione del pittoresco inglese, pianificato come scena continuamente variabile, luogo di riequilibrio metropolitano; aperto nel 1862 su progetto di Frederick Law Olmsted e dopo grandi battaglie di riforma urbana ispirate dalla filosofia trascendentalista americana degli Emerson e dei Thoreau, il parco divenne da subito il simbolo di una collettività ritrovata nell’uso sociale del tempo libero. Per i nuovayorkesi Central Park è quindi qualcosa di più di un mero giardino pubblico, quasi uno spazio
mentale, tanto che gli è stata perfino dedicata una sinfonia, «Central Park in the Dark», piccolo capolavoro in cui Charles Ives evocava i suoni che si potevano ascoltare stando seduti su una panchina nel 1906.
Matteo Pericoli non ha fatto altro che sedersi su quella panchina disegnando tutti gli edifici che affacciano sul parco, allineandoli su di un rotolo di carta lungo dieci metri. Il breve diario che ne ha ricavato è parte integrante del suo lavoro su Manhattan: l’esperienza sensoriale del disegno si è trasformata in esperienza intellettuale: «A New York quasi ogni edificio parla un proprio linguaggio. E nel parco, dal parco, questa relazione « il dialogo fra i nostri sensi e le migliaia di linguaggi della città » è sorprendentemente chiara. E? chiara perché siamo lontani quanto basta per sentire tutte quelle voci fondersi in una sola?.
Lo skyline interiore L’astrazione permea l?intero dispiegarsi di questo skyline interiore, grazie anche alla scelta di colori acidi, innaturali. Sarà allora inutile sfogliare
«Il cuore di Manhattan» alla ricerca dei dettagli del Guggenheim, del Majestic, del Metropolitan o di qualunque altro edificio in particolare perché ogni skyline non è la somma degli edifici che lo compongono contro il cielo: è qualcosa al di là e oltre » avverte ancora Matteo Pericoli « qualcosa che trascende gli edifici e vive di vita propria. In ogni caso per afferrarlo pienamente occorre uno sguardo acuto, lo sguardo di un artista: «Invariabilmente trovavo un istante di pace assoluta nel correre a sud attraverso il Central Park al buio, nella direzione in cui la facciata della 50a strada getta le sue luci sugli alberi. Là c’era ancora una volta la mia città perduta, avvolta strettamente nel suo mistero e nella
sua promessa» (Francis Scott Fitzgerald, «L’età del jazz»).