Recensioni / L'architect guida l'elefante

Nel 1847 due giovani studenti di architettura - Robert Kerr e Charles Gray, di 24 e 19 anni - cercarono un'alternativa al sistema didattico vigente in Inghilterra. Mentre in Francia, ad esempio, l'École des Beaux Arts soggiaceva a un coordinamento statale, la democrazia liberale inglese preferiva che gli aspiranti architetti si formassero svolgendo un (costoso) praticantato presso rinomati progettisti, che però spesso comportava abusi di potere, sfruttamento e scarsi benefici.
Kerr e Gray decisero quindi di creare un piccolo club indipendente chiamato Architectural Association - per tutti «A.A.» - in cui la formazione avveniva «dal basso», secondo un principio di self-education, cioè autonomia e condivisione del sapere e delle opinioni. Lentamente, da circolo ristretto l'A.A. divenne una vera e propria scuola, e nel 1925 si trasferì nella sede di Bedford Square (a due passi dal British Museum), in cui si trova ancora oggi. In oltre 170 anni di storia nelle stanze dell'A.A. sono accadute molte cose, ma un periodo in particolare - tra gli anni Sessanta e Settanta - ne ha consacrato il mito, portando qualcuno a considerarla «la Bauhaus delle neo-avanguardie».
La storia di quel periodo è l'oggetto di un libro che già nel titolo (Contro il metodo. Episodi e temi dell'Architectural Association 1968-1982), parafrasato dal celebre Against Method di Paul Feyerabend (edito proprio a Londra nel 1975), sintetizza il carattere peculiare della scuola. Solo lambita dalle proteste studentesche del Sessantotto, anche perché privata, l'A.A. si distingueva per la sfumata distinzione gerarchica tra studenti e docenti, per il clima culturale anticonformista, per avere tante personalità carismatiche ma nessun pensiero dominante, nessuna visione collettiva e quindi nessun metodo, come per mantenere fede all'originario principio di apertura e democrazia. «Probabilmente la formula era che non c'era una formula», suggerisce Rem Koolhaas, studente e poi docente a Bedford Square: «un giovane dallo sguardo sempre triste», lo ricorda Adolfo Natalini, fondatore del gruppo toscano Superstudio che tanta influenza avrà sulla A.A. dell'epoca. Ma la lista di (future) celebrities è lunga: tra i laureati in quegli anni troviamo Libeskind, Bernard Tschumi, David Chipperfield, Ron Arad, Will Alsop e Zaha Hadid, una giovane con l'ossessione di disegnare i suoi edifici smembrati in mille pezzi.
Torniamo alla tesi del libro: «mentre in tutta Europa la finzione delle scuole di architettura era dominata dalla scommessa su una palingenesi politica e sociale che avrebbe portato al socialismo, all'A.A. il racconto ha coinciso con quello che sarebbe successo, vale a dire il trionfo del liberismo globale, all'insegna dell'anything goes». In altre parole, l'anti-modello dell'A.A., con il suo cinico (o comodo) distacco dalla politica, sarebbe poi risultato vincente con l'affermazione del neoliberismo negli anni Ottanta e successivi.
Protagonista è il carismatico canadese Alvin Boyarsky, Chairman dal1971: tra i concetti chiave della sua direzione c'erano «la democratizzazione spontanea della scuola, senza l'intervento di una contestazione dall'esterno»; l'utilizzo dei nuovi strumenti informatici; l'importanza della dimensione urbana e delle città globali, ora più vicine. Merito del Boeing 747, in servizio nel 1969: secondo Boyarsky, il nuovo aereo avrebbe generato una «agorà itinerante dell'architettura» fatta di innovatori «peripatetici». Molte di queste idee erano in realtà già presenti, ma Boyarsky fu bravo a comunicarle. Più che la quotidianità della scuola, il libro racconta infatti la costruzione della sua immagine pubblica, attentamente calibrata per attirare allievi e finanziamenti, e per autolegittimare il proprio ruolo di istituto d'avanguardia.
Nel coro c'erano anche voci polemiche, di cui l'ultimo capitolo dà traccia esaminando i periodici della scuola. Se la conflittualità interna che emerge è prova della dichiarata democrazia e vitalità dell'A.A., essa mette però in luce anche i punti critici di un'istituzione in equilibrio tra una direzione istrionica e la partecipazione diretta, tra dissenso interno e veste pubblica. Nel primo numero di «Ghost Dance Times», rivista diretta da Martin Pawley, si critica ad esempio lo scollamento tra la didattica proposta e il mondo reale: «in laboratori semivuoti e bar affollatissimi, studenti e professori si impegnano nel mutuo esorcismo di una realtà professionale, che i primi non hanno ancora affrontato e i secondi non hanno mai vissuto». La libertà d'espressione della rivista passò il segno quando appoggiò con troppa foga uno sciopero interno per l'aumento degli stipendi dei docenti, svelando la contrapposizione tra l'apologia della libera concorrenza e una vena d'ispirazione marxista che per alcuni era fuori luogo in un'istituzione privata come l'A.A. Anche in seguito a questi attriti, Boyarsky bloccò i fondi per la rivista, decretandone la morte e quindi un ridimensionamento della pluralità di voci.
Entrando puntigliosamente nel backstage della scuola londinese, il libro di Manfredo di Robilant fa emergere le trame che stanno dietro a un'istituzione che - come il Bauhaus e tanti altri epicentri del pensiero progettuale del XX secolo - si è proposta di insegnare a progettare il mondo e quindi di darne un'interpretazione. Una simile missione ha richiesto il dosaggio attento di realtà e finzione, consenso e dissenso, utopia e pragmatismo; e soprattutto, come capì bene non solo Gropius ma anche Boyarsky, la costruzione di una narrazione convincente per i contemporanei e i posteri.
Dispiace solo che il libro non abbia figure: avrebbero arricchito e anche aiutato la lettura di un resoconto molto denso. A sorpresa, l'ultima pagina (apribile) offre un piccolo risarcimento: il breve fumetto scritto dall'autore, in cui la palazzina georgiana di Bedford Square prende vita per ricordare i suoi vecchi ospiti: «c'era ben poco da costruire! E allora tutti giù a disegnare, come se l'architettura fosse un pianeta a parte».