Recensioni / Aprirsi all'erranza: su Non abbastanza per me di Stefano Scodanibbio

È sempre promessa (puntualmente mantenuta) di un entusiasmante viaggio intellettuale prendere in mano uno di quei volumi bianchi sul cui dorso, in basso, si riconosce l’umile figura di Robert Walser con il cappello in una mano e l’ombrello nell’altra: proviene da una fotografia scattata durante una delle quotidiane Wanderungen dello scrittore di Bienne ed è una sorta di presenza tutelare, comunque di promessa, come dicevo, e d’impegno intellettuale che la Casa editrice Quodlibet di Macerata si è assunta nei confronti dei propri lettori; il volume di cui desidero scrivere qui s’intitola Non abbastanza per me (scritti e taccuini) di Stefano Scodanibbio e regala gioia e il gusto della scoperta a chiunque, con atteggiamento appunto walseriano, desideri attraversare paesaggi di pensiero e di scrittura non scontati, non banali, non dozzinali.
Si tratta, in realtà, di un libro che Giorgio Agamben e Maresa Scodanibbio hanno costruito raccogliendo articoli, annotazioni dai taccuini privati e note ai pezzi musicali che il grande contrabbassista maceratese aveva scritto nel corso della sua vita (Stefano Scodanibbio nacque a Macerata nel 1956 e morì a Cuernavaca in Messico nel 2012): un libro che è, dunque, nello stesso tempo tributo alla memoria del musicista e sua presenza attraverso la parola scritta nella nostra contemporaneità.
Commosse e commoventi le pagine in apertura del volume (Battito e forma) nelle quali Giorgio Agamben ricorda l’amico scomparso: Che cosa resta e che cosa si perde di una vita? Questa domanda – se la vita è quella di un amico scomparso – non ci dà tregua, dobbiamo provare in qualche modo a rispondere. Certo, la misura, l’irreparabile scialo di ciò che si perde eccede di gran lunga ciò che possiamo provare a ricordare e a comunicare. Come descrivere a chi non li ha visti la presenza e il sorriso di Stefano, la sua danza amorosa col contrabbasso, la sua schiva insaziabilità, quel modo attento e impaziente di far soffriggere i pasillas per gli amici?… Se è vero che la relazione con un morto è la più esigente di tutte, come renderle giustizia? (pag. 9) perché la memoria tende a infiacchirsi, a confondersi, anche quella di chi è stato vicino alla persona scomparsa. E allora, scrive Agamben, è necessario comprendere che ciò che di essa (della vita) si perde e ciò che si salva coincidono perfettamente, che ciò che resta si perde in ciò che svanisce e ciò che va a fondo e scompare riaffiora subito dall’altra parte, confitto in un cielo eterno e stellato (ibidem). E continua: I medievali chiamavano ductus la tensione che percorre e anima una forma, tenor sub aliqua figura servatus. Nella grafologia, non la forma dei caratteri, ma la spinta della mano che li traccia. Non riesco a trovare altro concetto per parlare di Stefano, tanto della sua musica che della sua vita. Non forma e sostanza, ma gesto e flussione: forma fluens, aquaeductus. Un battito ossessivamente, attentamente scandito, come in Voyage that never ends o in Oltracuidansa o nella scrittura corsiva dei taccuini, un «sillabario di macerie», compitato da solo «con il mio battito cardiaco inesorabile». Si immagini una poesia frantumata finché non restano che lettere e sillabe sparse e poi qualcuno che si provi ostinatamente a ricomporla a partire da questo abecedario infantile. Ductus infinitamente spezzettato e altrettanto ostinatamente ricomposto. Ma sempre teso, a perdifiato (pag. 10).
È così che il filosofo rievoca il rapporto anche carnale di Scodanibbio con il contrabbasso e con la musica, la “magia” che avvertiva chi lo ascoltasse: come pensava Giordano Bruno, la magia è magia naturale, scienza e esperienza della materia. Gli antichi chiamavano la materia con un termine – hyle – che significa anche legno e foresta, e che i latini traducevano per questo con silva (la selva in cui Dante si perde – anzi, si «ritrova» – all’inizio della Commedia è questa materia primordiale). In questa selva, Stefano era di casa, vi entrava e ne usciva come in labirinto senza bisogno di filo. E «selva» non era per lui soltanto la materia lignea del suo contrabbasso, ma, più in generale, la materialità dei suoni (pag. 11). Le parti conclusive dello scritto rievocano la passione per il viaggio, l’amore per il Messico, l’equilibrio magistrale che Scodanibbio sapeva raggiungere tra improvvisazione (per lui fondamentale) e studio rigoroso attraverso la trascrizione dei pezzi di Bach, di Monteverdi, di Berio e delle canzoni popolari, così che, conclude Agamben, Poetica non è mai una vita, per quanto avventurosa e svagata, né un’opera, per quanto singolare e inaudita. Poetica è solo l’ospitalità che si danno a vicenda (pag. 13).
Gli scritti di Stefano Scodanibbio contenuti nella sezione Ritratti ed echi ne dimostrano l’enorme vitalità, la totale indipendenza di giudizio, l’inesausta curiosità intellettuale, l’energia che poi riconosceremo, intatte, nei Taccuini; da Terry Riley a Karlheinz e Markus Stockhausen, dalla Rassegna di Nuova Musica di Macerata, a John Cage, a Vittorio Reta (Visas, naturalmente, l’espressione poetica più autentica della mia generazione – pag. 33) appassionanti pagine ci conducono traverso il mondo artistico e umano di Scodanibbio, mondo materiato di solida e profonda preparazione musicale, senso totale e totalizzante dell’amicizia, libertà da qualunque forma di pregiudizio. Se “arte d’avanguardia” e “arte di ricerca” possono apparire etichette logore e destituite di significato, leggere Scodanibbio (sempre avendo nell’orecchio le sue musiche, ovviamente) fornisce una controprova del fatto che un’arte che vada oltre ripetitivi schemi, che rompa decisamente abitudini inveterate, che con precisi gesti libertari e liberatori violi mentalità conservatrici e retrograde è esistita ed esiste e che Stefano Scodanibbio, incrociando tra di loro musica, filosofia, poesia, danza ha offerto un esempio da studiare e da continuare.
Non è un caso, allora, che il primo scritto (Echi di un’avventura) s’inizi con una citazione da Paradiso di José Lezama Lima: … la zazzera sconvolta di un suonatore di contrabbasso e che Scodanibbio racconti con lo stile chiaro e diretto che lo caratterizza delle sue esperienze e scelte di contrabbassista – e Lezama Lima, sia autore di Paradiso che poeta, torna spesso nelle 302 pagine del volume, quasi nume tutelare per la mente errante del contrabbassista, garante di un’attitudine sperimentale instancata.
Si leggano allora Il grande anonimo del Ventesimo secolo, lungo e commosso ricordo di Giacinto Scelsi, Che sarei senza ES?, celebrazione dell’amicizia e delle collaborazioni artistiche con Edoardo Sanguineti, e gli scritti dedicati a Nono, a Berio, a Conlon Nancarrow (straordinario inventore che ha aperto nuovi orizzonti alla musica, lettore vorace, ricercatore maniacale, persona schiva che ha abitato la solitudine e l’isolamento dove possono nascere, lontano dai clamori del mondo, i pensieri più autentici e rivoluzionari – pag. 65), a Giorgio Agamben per dischiudere innanzi tutto a sé stessi innumerevoli universi, per attraversare soglie di libertà inattesa e gioiosa.
Faccio “ascoltare”, a tal proposito, la voce stessa del contrabbassista maceratese: Da un lato un rapporto estremamente fisico e manuale, dall’altro lo sconfinamento fantasioso in territori inesplorati. Perché è solo il nuovo a dare senso all’opera. La ricerca del nuovo è, per me, la condizione del fare. Con il rischio, l’azzardo e il caso che ogni abbandono di terre note comporta. Spregiudicato e avventuroso tutto si svolge molto liberamente e anche un po’ libertinamente: tabelline e tabulature, simmetrie e proporzioni auree, senza irrigidimenti conservatoriali e tentativi forzati di far quadrare ciò che è nato fuori dalla quadratura (da Idiomi, viaggi, strumenti musicali, pag. 33).
E veniamo ai Taccuini 1977-2011: mi vien fatto di scrivere che Leitmotiv di queste quasi 200 pagine è il viaggio nel suo duplice svolgersi (fisico e mentale senza ordine di preferenza), bellissimo il mosaico linguistico in cui le annotazioni sono scritte, ché Scodanibbio trascorre con naturalezza estrema (a seconda dell’esigenza espressiva, dell’episodio, del luogo, delle persone coinvolte) dall’italiano allo spagnolo, al portoghese, al tedesco, all’inglese, al francese, creando meravigliosi intarsi che sono il riflesso naturale dell’ambiente culturale e linguistico nel quale il musicista è stato, di volta in volta, letteralmente immerso, vivendo le sue esperienze e il suo pensiero grazie a una permeabilità ammirevole nei confronti dell’ambiente (che è, ripeto, sonoro, ma anche linguistico, culturale, coloristico); non è difficile immaginare, allora, che queste pagine non siano altro che la versione in forma di scrittura del suo modo di suonare il contrabbasso, così ospitale nei confronti delle esperienze e delle proposte più diverse, così nomadico e curioso, vitale e irrequieto.
Andavo sempre più svelto prima con le idee poi con i chilometri.
Adesso, corazón vagabundo (Messico, 1978, pag. 72).