Recensioni / La Storia della Morante, un fenomeno letterario

Seicentomila copie vendute in pochi mesi, un milione dopo un anno, prezzo popolare imposto dall’autrice di duemila lire, centinaia di recensioni. Questo è il caso letterario sollevato da La storia di Elsa Morante, che uscì in libreria il 20 giugno 1974 con una tiratura iniziale di centomila copie, un fenomeno questo mai accaduto nella storia dell’editoria italiana.
Un fenomeno ora indagato con un’attenzione lenticolare da Angela Borghesi, docente di Letteratura italiana all’università di Milano Bicocca, che in L’anno della Storia 1974-1975 segue e commenta in un ampio saggio mese per mese le opinioni dei critici e raccoglie in antologia tutte le recensioni apparse su quotidiani e riviste, con fastidiosi e prevedibili effetti di ridondanza, poiché, si sa, i critici hanno la mania di citarsi a vicenda.
Borghesi si interroga sull’assenza al dibattito di Franco Fortini, che doveva dedicargli un seminario universitario e un saggio per la collana «Nuovo Politecnico» di Einaudi, che non uscì mai. Appena pubblicato, il romanzo venne subito elogiato da Geno Pampaloni, Natalia Ginzburg, Carlo Bo e Cesare Garboli, e il giudizio trionfali stico della Ginzburg, «il più bel romanzo di questo secolo», funzionò da slogan pubblicitario.
Poi arrivarono le stroncature, soprattutto dalla sinistra marxista, Balestrini, Pedullà, Asor Rosa, Luperini, ma anche dal clan Moravia, marito di Elsa, in particolare da Siciliano e Pasolini. Narrando l’odissea della maestrina Ida Mancuso a Roma tra guerra e immediato dopoguerra, la Morante aveva scritto un romanzo leggibile e popolare, di buon artigianato letterario, sul modello dei grandi narratori ottocenteschi Hugo e Dickens e contrapposto agli sperimentalismi della neoavanguardia.
Al di là delle ideologie, allora ancora molto forti, c’era l’invidia per il successo da best-seller di una scrittrice appartata, da quindici anni estranea ai salotti letterari. Fu accusata insomma di «vendere disperazione», di far piangere, di eccedere nel patetismo. Anche Dickens aveva questo difetto, eppure fu un grande scrittore.
Calvino, che era attratto dall’idea di un grande romanzo popolare che mancava nella nostra tradizione letteraria, scrisse: «Oggi sentiamo che far ridere il lettore, o fargli paura, sono procedimenti letterari onesti; farlo piangere, no». Ma neanche lui sapeva spiegarsi il perché.

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