Recensioni / Jelly Roll Morton, genio e libertà del jazz che qualcuno a sinistra odiava

Washington D. C, 1938; in un locale un po’ dimesso, il Music Box s’incontrano, per la prima volta, due uomini. Il più anziano, sui cinquant’anni, è un signore molto ben vestito e curato nell’aspetto; un vecchio dandy. Chi lo guarda da vicino può notare un diamante infisso nella cavità dentale, simbolo di una ricchezza ancora ostentata, anche se lontana. Al Music Box è il tuttofare; suona il piano, serve al bancone, organizza le serate musicali. Si chiama Ferdinand Lamothe ma il suo nome d’arte, con il quale è conosciuto fin dalla metà degli anni dieci, è Jelly Roll Morton (1885 ca. 1941).
È un creolo di New Orleans, con radici franco - haitiane: un eccellente pianista, arrangiatore e compositore di jazz, un pioniere. Si proclama addirittura l’inventore di questa musica. Nell’ambiente ha però fama di essere un egocentrico, un presuntuoso che riesce a parlare solo di se stesso, come disse Duke Ellington, e anche di mentitore. L’altro è un ventitreenne che lavora alla Biblioteca del Congresso, nella sezione musicale ed è un appassionato ricercatore di musiche folkloristiche della tradizione americana. Si chiama Alan Lomax e odia il jazz. Da militante della sinistra radicale vede nella musica nera del suo tempo (l’epoca delle grandi orchestre swing) un prodotto tipico della mercificazione capitalistica. Se accetta di incontrare Morton è perché viene convinto da qualche collega che crede che lo swing (molto suonato nelle sale da ballo del paese) sia una degenerazione commerciale dell’autentico jazz delle origini, quello sì radicato nella vicenda sociale del nero nord americano.

L’Fbi: “Lomax è poco affidabile e scontroso”
Secondo un rapporto dell’Fbi (era ovviamente in odore di comunismo) Lomax “è un individuo molto strano: si interessa soltanto di musica folk, è davvero poco affidabile e scontroso. [...] Non dà alcun valore ai soldi, usa la sua proprietà e quella del governo con negligenza, praticamente non si cura del suo aspetto”; Morton ha invece passato la sua vita in giro in giro per gli States, suonando in locali non sempre di ottima fama; è stato un giocatore di professione, un asso del biliardo, ha vissuto spesso pericolosamente, tanto che, poco prima di incontrare il giovane studioso ha ricevuto, proprio nel locale di Washington, una coltellata che ne ha minata la salute.
Lomax è, e sarà per tutta la vita, uno dei ricercatori che giravano per le comunità rurali degli States, armati di registratore, per catturare la memoria popolare. Lamenta che “ le selvagge correnti del linguaggio indisciplinato, così congeniale agli americani “ siano state disseccate da una lingua grigia e monotona tipica di scrittori come Hemingway. Le persone che incontravo alla fine dei miei viaggi (di ricerca nda) pronunciavano frasi che si snodavano sulla pagina come fiumi impetuosi o come catene montuose.”. In anni successivi registrarono anche in Spagna e in Italia (con Diego Carpitella.)
Affascinato a prima vista dal personaggio Morton, e dal suo eloquio, decide di farsi raccontare la sua vita; registra il suo racconto e, anni dopo, mette su pagina il suo lavoro. Pubblicato nel 1950, e solo ora tradotto in italiano (corredato da bellissimi disegni di David Stone Martin) , il libro Alan Lomax, Mister Jelly Roll include le memorie dell’anziano pianista (era nato, pare, nel 1885) e “interludi” scritti dal musicologo con una prosa molto ricca, immaginifica, fra cui altre interviste con vecchi suonatori di Jazz di New Orleans.

Il volume fa rivivere tensioni razziali e Carnevale
Il volume, ottimamente curato da Claudio Sessa, è, semplicemente, splendido, inserito com’è nella vasta corrente “on the road” della letteratura nord americana. Restituisce i colori e i profumi delle strade di New Orleans, dei suoi locali di piacere, il senso della mescolanza e della tensione razziale nella città del Delta e in tutti gli States. Fa rivivere il carnevale, le battaglie, spesso non solo musicali, delle bande cittadine, la cultura del voodoo, le notti brave, la Chicago del gangsterismo. Fa respirare il clima di continuo cambiamento e di precarietà individuale e sociale degli Usa dei primi decenni del secolo scorso. Jelly Roll passò in continuazione da periodi di grande agiatezza a stati di quasi indigenza (in cui si mise anche a vendere pozioni fasulle contro la tubercolosi). Nel 1938 era quasi un relitto, trascinato a Washington dalla grande depressione del’ 29, dopo vicende sfortunate che lui stesso attribuisce a malefici voodoo.
Claudio Sessa e Stefano Zenni danno un quadro critico molto esauriente del lavoro di Lomax nelle loro note introduttive, mettendo in rilievo come lo studioso abbia spesso sovrapposto e imposto prospettive sue a quelle dell’intervistato: la ricerca storica ha dimostrato che Jelly fu molto meno mentitore di quanto il suo interlocutore immaginasse. A Lomax, secondo i due saggisti italiani, interessava, più che altro, costruire un’immagine romantica di Morton, della sua musica e del (sotto) proletariato americano dei primi decenni del secolo scorso. Il libro è la narrazione delle picaresche vicende del musicista, ma anche la storia di un innamoramento: quello di Alan Lomax per quella vita, e quella musica, ribollente e libera.

Dalla sinistra italiana repulsioni e incantamenti per il jazz
D’altronde, anche nella storia della sinistra, la musica afroamericana è stata oggetto di giudizio oscillanti e spesso pregiudiziali: di repulsioni vere e proprie ( quella di Gramsci, ad esempio, espressa in una lettera dal carcere del 1928 ), di censure, anche poliziesche, nei paesi del socialismo reale, ma anche di esaltazioni sentimentali e acritiche che vedevano il jazz solo come espressione dei sentimenti del popolo afroamericano. Si pensi solo a quanto questo innamoramento ideologico sia stato molto pronunciato negli anni ’70, soprattutto in Italia. Simboli di questa passione, effimera ma tanto intensa da contagiare anche Pier Paolo Pasolini, furono allora l’Art Ensemble of Chicago e, soprattutto, la meteora Gato Barbieri.

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