Se non fosse stato per il dialetto,
oggi non potremmo beneficiare
dei prodotti migliori
della letteratura italiana. Se
non fosse stato per il dialetto,
la stessa lingua italiana non si
sarebbe affermata. Perché il
dialetto è la nostra lingua-madre,
laddove l'italiano è la lingua-patria.
Insieme rappresentano
i nostri genitori, di cui abbiamo
allo stesso modo bisogno.
La "madre" è nata prima,
col nome di volgare, ma è longeva
come il "padre", attiva ancora
oggi, nonostante i reiterati
tentativi di metterla in sordina.
Ed è stata capace di produrre
frutti notevoli a livello letterario
anche nell'ultimo secolo,
come dimostra la collana Ardilut
della casa editrice Quodlibet,
presentata ieri al Festivaletteratura
di Mantova dal filosofo
Giorgio Agamben: una
collana che pubblica testi in
dialetto di nuovi poeti e classici
del '900 come Pasolini e Zanzotto,
testimoniando il bilinguismo
perdurante della nostra
poesia. La presentazione
diventa l'occasione per tracciare
una genealogia e una geografia
della poesia dialettale italiana,
con una consapevolezza:
il campanilismo letterario
ha fatto la fortuna del nostro
Paese. «La varietas linguistica
figlia della nostra frammentazione
politica», ci dice Ivan Crico,
poeta e pittore, nonché traduttore
di I Turcs tal Friùl. I
Turchi in Friuli di Pier Paolo
Pasolini per i tipi di Quodlibet
(pp. 180, euro 17), «è un unicum
italiano. In altri Paesi europei
la letteratura in dialetto è
ridotta a folklore, da noi ha partorito
capolavori».
Da Dante a Goldoni
Questo legame intrinseco
tra poesia e dialetto dipende
non solo da ragioni storiche,
ma anche da più profonde motivazioni
che riguardano l'essenza
del dire poetico. In primo
luogo il dialetto è la lingua
degli affetti e permette alla poesia,
soprattutto a quella lirica,
di esprimere la dimensione intima
del soggetto; il dialetto è
poi linguaggio autentico, originario,
è «l'uso sorgivo della lingua»
come lo definisce Agamben,
non ancora corrotto dalla
lingua codificata e grammaticale
o dall'invasione dei termini
stranieri. «Il poeta», spiega
Crico, «ha bisogno di andare
all'essenza costitutiva della
realtà. Nel linguaggio dialettale
egli vede una possibilità ulteriore
di avvicinarsi a questa lingua
segreta delle cose». Infine
il dialetto consente, attraverso
un recupero del linguaggio primigenio,
di raccontare meglio
la nostalgia verso i luoghi natii,
l'infanzia la casa, il tempo e il
paradiso perduti, di cui si alimenta
la poesia.
È questo rapporto che consente
di spiegare la presenza
del dialetto in tutta la nostra
tradizione letteraria: da Dante
che, nel De vulgari eloquentia,
definiva il volgare la lingua
«più nobile», quella che «i
bambini apprendono da chi
sta loro intorno appena cominciano
a distinguere le voci», a
Machiavelli che, con Il Principe,
fu tra i primi a comporre
un'opera politica in volgare;
per continuare con Ruzzante e
Carlo Goldoni, celeberrimi per
le commedie in vernacolo veneto,
e ancora con il poeta meneghino
Carlo Porta e lo scrittore
Giambattista Basile, autore
de Lo sunto de li cunti, redatto
interamente in napoletano;
per finire poi con Pirandello
che scrisse in dialetto siciliano
le opere teatrali, solo più tardi
tradotte in italiano, Liolà, Pensaci,
Giacomino! e Il berretto a
sonagli.
Ma è soprattutto nel primo
Dopoguerra che la poesia italiana
conferma la vocazione
dialettale. A questa tensione
contribuiscono alcuni fattori:
«Durante il fascismo», evidenzia
Crico, «in contrapposizione
all'uniformazione linguistica
voluta dal regime, alcuni
poeti, come il milanese Delio
Tessa e il romano Trilussa, riscoprono
la lingua parlata vernacolare.
Poi ancora, anticipando
gli sviluppi di un mondo
"globalizzato", Pasolini coltiva
il dialetto come risposta
all'annichilimento della varietà
linguistica raggiungendo,
pur giovanissimo, con Poesie a
Casarsa e I Turcs tal Friùl i vertici
della sua produzione.
Noventa e Zanzotto
Da ultimo, negli anni '80,
contro la poesia sperimentale
diventata puro manierismo,
autori come Amedeo Giacomini
recuperano le lingue dialettali
alla ricerca di un maggiore
contatto con la realtà». Vengono
fuori in tutta Italia prodotti
notevoli: in Venezia Giulia maturano
le opere di Biagio Marin,
in Veneto toccano altissime
vette i versi di Giacomo Noventa
e Andrea Zanzotto, inaugurando
una tradizione poetica
veneta di cui Francesco Giusti,
autore di Quando le ombre
si staccano dal muro (Quodlibet),
rappresenta valido erede;
in Lombardia sboccia l'astro
di Franco Loi e in Emilia-Romagna
vedono la luce i componimenti
di Tonino Guerra e
Raffaello Baldini, maggiori
esponenti della scuola di Santarcangelo
di Romagna che
«interseca», avverte Crico,
«poesia, teatro e cinema»; e se
in Liguria si fanno notare
Edoardo Firpo e Paolo Bertolani
e in Piemonte Bianca Dorato,
nelle Marche si afferma
Franco Scataglini; mentre a
Sud la tradizione poetica e
drammaturgica in dialetto viene
portata avanti dai campani
Eduardo De Filippo e Raffaele
Viviani, dal siciliano Ignazio
Buttata e dai lucani Rocco Scotellaro,
di cui recentemente sono
state pubblicate le poesie
vemacolari, e Albino Pieno,
più volte candidato al premio
Nobel per la Letteratura.
Questa mappa geo -letteraria
potrebbe comprendere peraltro
quanti, pur scrivendo in
italiano, hanno infarcito le loro
opere di dialettismi, si pensi
a Verga e Gadda.
E ci conferma due cose: la
prima è che la lingua letteraria
italiana potrà restare tale solo
«se continuerà a riferirsi a questo
intrinseco bilinguismo», come
avverte Agamben; la seconda
è che, se l'Italia non fosse
stata a lungo divisa, se non fosse
stata terra di campanili e
particolarismi, e non avesse
avuto per secoli questa sorta di
federalismo letterario, forse
non avrebbe partorito i capolavori
di cui meniamo vanto.