Recensioni / Compassione e ambizione

Il corposo volume che Angela Borghesi ha dedicato al dibattito infiammatosi sulla Storia al tempo della sua pubblicazione si divide in due sezioni: la prima, a cui più specificamente si riferisce il titolo L'anno della Storia, è firmata dalla studiosa e consiste in un'ampia mappatura della querelle; la seconda raccoglie duecentosei degli oltre trecento interventi censiti del dibattito, più una ricca Bibliografia analitica compilata insieme a Domenico Scarpa.
Riguardo alla sezione saggistica, Borghesi vi ripercorre innanzitutto, con fiuto filologico, le ragioni del "silenzio assordante" di Franco Fortini, che lesse e apprezzò il romanzo, al punto di organizzare un seminario sulla vicenda editoriale della Storia all'Università di Siena nell'autunno del 1974, ma in seguito annullò il contratto già stipulato con Einaudi per un volume sul romanzo e decise di non pubblicare nemmeno l'intervento che Borghesi rende qui noto per la prima volta. Al di là di questo brillante scoop; le pagine sul crescente disagio di Fortini di fronte a un libro che gli suscitava impressioni ambivalenti su Morante - "la sua grandezza di scrittrice fa tutt'uno con i suoi consistenti limiti ideologici" - sono fondamentali nel suggerire subito l'orizzonte ristretto di un dibattito che, perlopiù, "fu letterario fra letterati e ideologico tra ideologhi". Non meno rilevanti, pertanto, sono i paragrafi dedicati a Nicola Chiaromonte che, scomparso nel 1972, ha in quest'occasione il ruolo del convitato di pietra che getta luce - o, piuttosto, ombra - sulla sostanziale incapacità, durante la lunga discussione, di riconoscere la visione del mondo al cuore del romanzo. Al riguardo, Borghesi cita un passo di Credere e non credere dedicato al Dottor Zivago in cui si legge: "e, a proposito del deliquio della strega soldato che compie un esorcismo su una vacca malata, come, per raggiungere la perfezione, Pasternak avrebbe dovuto scrivere nel registro indicato da quel farneticare", mettendolo in rapporto con la rivelazione del sacro. Una simile osservazione offrirebbe, infatti, una preziosa chiave di accesso all'impalcatura filosofica della Storia, debitrice di forme di pensiero estranee alla maggior parte di coloro che parteciparono al dibattito, come le religioni orientali e la filosofia di Simone Weil, i cui lasciti morantiani Borghesi ha esplorato nel suo precedente Una storia invisibile. Morante Ortese Weil (Quodilbet, 2015). Seguono poi capitoli di scorrevole leggibilità che ricostruiscono in ordine cronologico il dibattito dal giugno 1974 all'agosto 1975 e che, anteponendo i principali fatti al commento, intendono evidentemente imitare la struttura annalistica del romanzo; non mancano, però, le parentesi ironiche e i giudizi affilati nel quadro che la studiosa ci offre di una querelle in cui si schierò il meglio - ma anche il peggio - della critica del tempo. Si ritrovano così protagonisti ed episodi noti, come l'incauto giudizio a caldo di Natalia Ginzburg che, al termine di un elzeviro sul "Corriere della sera" su Tonino Guerra, definì La Storia "il romanzo più bello di questo secolo", e la provocazione, al contempo violenta e disarmante, di Nanni Balestrini, Elisabetta Rasy, Letizia Paolozzi e Umberto Silva che sul "il manifesto" del 18 luglio 1974 stroncarono il romanzo avendo letto "chi [...] dieci righe, chi dieci pagine, chi un po di più". Non di meno, grazie al meticoloso recupero delle fonti, Borghesi tesse una rete di costanti che va ben oltre la risaputa accusa di un elementare e posticcio ideologismo accoppiato al facile effetto patetico: ad esempio, l'insistenza sui paragoni con i Russi, la rilevazione, non solo di Pasolini, della compresenza di istanze narrative diverse, più o meno felici, e di tragedia e allegria, ma anche l'indagine da parte dell'incipiente, in quegli anni, sociologia della letteratura sul best seller di qualità. Borghesi non tralascia poi di menzionare un filone dal valore ermeneutico minimo, ma utile per comporre il campo entro cui muove la ricezione sull'immediato della Storia, quale il gossip pseudobiografico che insiste sulla leggenda già affermatasi di una scrittrice dalla personalità bizzarra e intransigente.
In questa ricostruzione così densa e documentata, che dà la misura della serietà e delle dimensioni della ricerca, si poteva forse tagliare il resoconto di alcuni interventi non proprio memorabili, ma si capisce che Borghesi ha mirato a delineare una mappatura il più possibile analitica ed esaustiva per fornire solidità alla studiata architettura del suo saggio. Le Conclusioni, infatti, portano a compimento il discorso avviato nel primo capitolo insistendo in particolar modo sui pregiudizi "contro le donne, contro il patetico, contro il libro di successo" di quello che con Arbasino si definisce il dominante "marxo-machismo italiano". Tuttavia se, giunti al termine delle novecento pagine dell'Anno della Storia, si ha la conferma di come lo status di classico del Novecento che Morante sta legittimamente guadagnando in questi anni dipenda anche da una ricezione metodologicamente e culturalmente più avvertita rispetto al dibattito del 1974-75, il libro aiuta non di meno - e qui entra in gioco la preziosissima sezione antologica, che fa da pendant al saggio di Borghesi - a rendersi conto di come certe critiche ideologiche non abbiano valore solo di documento di una virulenta fase di transizione politico-culturale, riguardo alla quale il romanzo di Morante andò a mettere, per così dire, il dito nella piaga. Leggendo, ad esempio, l'intervento di Rossana Rossanda su "il manifesto" del 7 agosto 1974, si percepisce come certe rilevazioni di matrice marxista contro il manicheismo tra la storia dei potenti e le microstorie dei personaggi, per quanto possano essere parziali e assertorie, in qualche modo tocchino l'imperfetta complessità della Storia, un'opera-mondo costitutivamente sospesa tra successo e fallimento, tra compassione e ambizione, sulla quale ancora molto c'è, fortunatamente, da dibattere.