Inaugurando di recente per
le edizioni Quodlibet la
collana di poesia. Ardilut, e
specificatamente nell'introduzione
alla raccolta del poeta
Francesco Giusti (Venezia, 1952),
il filosofo Giorgio Agamben ha
precisato che occorrerebbe «riscrivere
la storia della poesia italiana,
restituendo al termine "Italia" il suo significato geografico.
Vedremmo allora raddoppiarsi
il già cospicuo numero di poeti
e, accanto ai nomi appena evocati
[Montale, Caproni, Sereni,
Penna, Luzi, Betocchi, N.d.A.],
dovremmo iscrivere quelli di Marin
e Pedretti, di Loi e di Bandirli,
di Pierro, Giacornini e moltissimi
altri. E dovremo insieme
renderci conto che una sorta di
bilinguismo è consustanziale alla
poesia italiana, che questa, cioè,
per cause che possono soltanto in
parte spiegarsi con ragioni storiche
e politiche, è rimasta fedele a
quella diglossia che Dante, nel De
volgari eloquentia, ha iscritto come
un'impresa alle origini della poesia
italiana: il dualismo del volgare,
"parlar materno" che "solo
e primo è nella mente" e che si
riceve sine nomi regola dalla nutrice
e della lingua grammaticale, che
si apprende invece attraverso lo
studio"» (Francesco Giusti, Quando
le ombre si staccano dal muro, prefazione
di Giorgio Agamben, con
un saggio di Elenio Cicchini, Macerata,
Quodlibet 2019, pag. 7).
Ricordando anche la lezione di
Gianfranco Contini - il quale,
nella sua introduzione a La cognizione
del dolore di Carlo Emilio
Gadda, affermò che i dialetti rappresentano
uno dei veicoli primari
dell'espressione dell'identità
nazionale, facendo «visceralmente, inscindibilmente corpo» con il
restante patrimonio in lingua -,
appare quindi più che mai necessario
rileggere il canone poetico
novecentesco e il quadro relativo
all'attuale produzione mediante
un elemento peculiare - ma talvolta
trascurato in chiave critica
della nostra tradizione letteraria,
ovvero attraverso il suo radicale
policentrismo (di natura geografica,
storica e linguistica).
Negli ultimi due decenni, lungo
la scia della forza propulsiva della
linea neodialettale consolidata
in passato, tra gli altri, da Pierro,
Guerra, Loi, si è assistito ad un
cospicuo fiorire di raccolte poetiche
nelle "lingue d'Italia"; una
realtà caratterizzata tutt'oggi, oltre
che dalla spinta al recupero di
un verbo originario, germinativo,
anche da una posizione di antagonismo,
da una marcata opposizione
alla tradizione illustre e dominante
della nostra storia letteraria
(sostanzialmente ancorata all'equilibrio
formale petrarchesco e
al modello unitario di Bembo),
nonché ad una lingua percepita
in una fase di progressiva cristallizzazione
e declinante verso un
esito di "insignificanza'. La letteratura
italiana andrebbe invece
considerata come un prezioso assemblato
di letterature regionali,
le quali ci restituiscono l'immagine
di un processo di unificazione
nazionale lento e complesso, di recente
acquisizione se raffrontato a
quelli di altri grandi Paesi europei
(si pensi alla Francia, alla Germania,
all'Inghilterra); una Babele
di lingue ove confluiscono tensioni
multiformi e nella quale si
respirano sedimentazioni secolari,
intersezioni e incroci di culture.
La poesia dialettale, in un'epoca
globale, rimette in gioco la questione
della pluralità delle identità
e lo status di lingua nazionale e
ufficiale, configurandoli entro un
processo storico aperto a plurime
interpretazioni, che in quanto tale
può essere riscritto.
Effettuando una rapida campionatura,
ovviamente non esaustiva
per ragioni di spazio, rileviamo
che i poeti maggiormente significativi
dell'orizzonte contemporaneo
non sono mai pervasi da
un uso nostalgico e passatista del
dialetto, né da tentativi di rivitalizzazione
folldorica, bensì da una radicale tensione a decifrare la foresta
di segni del presente attraverso
idioletti rimodulati in tessuti
testuali estremamente originali.
Per il Veneto, oltre al magistero
di Luciano Cecchinel (Revine Lago,
1947), entrato a pieno diritto
nel canone odierno per l'altissimo
valore artistico dei suoi componimenti
(si vedano a sostegno, tra gli
altri, gli autorevoli interventi critici
di Zanzotto, Segre, Mengaldo,
Agamben, Gibellini, Martignoni,
Damiani), vanno sicuramente
ricordati Luigi Bressan (Agra,
1941), cantore di una natura in
grado di suscitare ancora stupefazione
e incantamento; Luciano
Coniato (Pontecchio Polesine,
1946), che nei dialetti polesano e
coneglianese racconta le storture
della grande Storia e i vizi sempiterni
del potere; Maurizio Casagrande
(Padova, 1961), il quale
ha recentemente pubblicato un
canzoniere di rara e dolorosa bellezza
che racconta, come in una
Via Crucis, le tappe dello strazio
toccato in sorte alla madre malata
e morente; Fabio Franzin (Milano,
1963), che nel dialetto parlato
nell'area opitergino-mottense, con
partecipata critica sociale, redige
un'epopea degli sconfitti (operai,
immigrati, disoccupati e diseredati)
nell'orbita del fallimentare
modello del Nord-Est; Pier Franco
Uliana (Fregona, 1951), cantore
delle epifanie del bosco del
Cansiglio, assunto nei suoi testi a
silva universale; Andrea Longega
(Venezia, 1967), dal veneziano
delicato e sognante, sottoposto
ad un labor limnae che lo conduce,
lungo un percorso a ritroso nella
memoria, sino ad una matrice
originaria di simplicitas. Altre voci
di primo piano sono sicuramente
Gian Citton (Feltre, 1938), Nina
Nasilli (Rovigo, 1968), Rita Gusso
(Caorle, 1956), Francesco Sassetto
(Venezia, 1961). Approdando
sulla sponda opposta dell'Adriatico,
e precisamente lungo la costa
istriana, poeti dalle complesse
stratificazioni culturali sono sicuramente
Loredana Bogliun (Pola,
1955), che scrive in i stroromanzo,
e Mauro Sambi (Pola, 1968), il
quale utilizza, con mirabile perizia
formale, il doppio registro italiano-dialetto
(istroveneto).
Per il Friuli-Venezia Giulia, oltre
a Pierluigi Cappello (1967-2017),
la più grande voce di questa terra
dell'ultima generazione, vanno
ricordati Ida Vallerugo (Meduno,
1941), Nelvia. Di Monte (Pampaluna,
1952), Giacomo Vit (San
Vito al Tagliamento, 1952), Laurino
Giovanni Nardin (San Vito
al Torre, 1951), i triestini Claudio
Grisancich (1939) e Roberto Pagan
(1934), nonché il poeta e pittore
Ivan Crico (Gorizia, 1968) per le
sue opere in bisiacco. Per quanto
pertiene l'ambito delle lingue di
minoranza, il Trentino-Alto Adige
annovera Roberta Dapunt (Val Badia,
1970) e Christian Ferdigg (Bolzano,
1977) per il ladino, mentre
per il dialetto trentino va ricordato
Renzo Francescotti (Cles, 1938).
La Lombardia annovera voci di
primissimo piano: Franca Grisoni
(Sirmione, 1945), Edoardo Zuccato
(Cassano Magnago, 1963),
Lino Marconi (Chiari, 1929);
il Piemonte Remigio Bertolino
(Montaldo Mondovì, 1948); l'Emilia-Romagna
Lia Cucconi (Carpi,
1940), Nevio Spadoni (San Pietro
in Vincoli, 1949), Emilio Rentocchini
(Sassuolo, 1949), Annalisa
Teodorani (Rimini, 1978). L'Umbria
Anna Maria Farabbi (Perugia,
1959) e Ombretta. Ciurnelli (San
Martino in Campo, 1947). L'Abruzzo
Cosimo Savastano (Cartel
di Sangro, 1939), la Puglia Francesco
Granatiero (Mattinata, 1949),
la Calabria Achille Curcio (Borgia,
1930), rnentra la Sicilia e la Sardegna
hanno i loro narratori lirici
rispettivamente in Nino De Vita
(Marsala, 1950), Sebastiano Aglie,
co (Sortino, 1961), Renato Pennisi
(Catania, 1957), Rino Cavasino
(Trapani, 1972) e Alberto Masala
(Ozieri, 1950).
Autori che nutrono il fiume carsico
che sottende l'alveo in luce della
nostra letteratura; poeti di visioni
periferiche, marginali, che ridisegnano
la filigrana del reale.