Dopo il primo volume di Paul Steinbeck dedicato all’Art Ensemble of Chicago ecco Quodibet riproporsi sul mercato editoriale con una pietra miliare della storia del jazz: la vita di Jelly Roll Morton raccolta per la Biblioteca del Congresso di Washington nel 1938 dall’etnomusicologo Alan Lomax. Quodlibet ha deciso di fare sul serio, producendo libri dedicati al jazz “importanti”, con il “vestito” delle opere destinate a durare. Pensiamo agli apparati che corredano il volume: la curatela precisa di Claudio Sessa, l’introduzione di Stefano Zenni, la postfazione di Lawrence Gushee, le illustrazioni di David Stone Martin. Tutto perfetto, bello alla vista e utile allo spirito. «Uno dei sacri testi per chiunque si occupi di jazz», scrive -e non esagera- Sessa.
Zenni nell’introduzione fornisce le coordinate per leggere il libro. L’incontro tra Lomax e Morton ha: “prodotto la prima, vera intervista di storia orale della musica statunitense”, spiega Zenni (p. 19). Estrapoliamo dal suo discorso una illuminante frase-sintesi:
All’inizio della sua carriera Lomax era convinto che il jazz corrompesse l’autentica musica folk americana. Poi, incontrato Morton, cambiò idea, e accolse il jazz tra le musiche del popolo. Per questo, secondo Lomax, anche il jazz di New Orleans conserva un nucleo di autenticità incorrotta, folclorica. Ma Morton la pensava molto diversamente: per lui il jazz è una forma d’alte colta, elevata, che accoglie – dice in un passo dellintervista- «le più belle idee delle più grandi opere, delle sinfonie, delle ouvertures…Non c’è niente di più raffinato del jazz, perché deriva da tutta la musica della miglior qualità» (Alan Lomax, p. 17).
E l’etnomusicologo come reagisce alla debordante personalità di Morton? Lomax ricorda nel 1973 che: «Quando fece irruzione nel Reparto Musica della Biblioteca del Congresso, per mettere in chiaro le cose sull’origine del jazz e sul proprio ruolo in essa, parlò una prosa nuova alle mie orecchie, ma tanto ironica, affascinante e piena di sorprese quanto le sue composizioni»( p. 30). Il pianista e compositore si era presentato di fronte a Lomax con una bisogno di rivincita, con un poderoso desiderio di riscatto artistico ed economico. L’occasione è unica e Morton, da provetto performer quale è, si presenta di fronte all’interlocutore come se dovesse affrontare il suo più importante ingaggio. L’incipit del libro è quasi il campo lungo di una superproduzione hollywodiana che si apre tra i busti dei compositori nelle austere sale della Biblioteca del Congresso, un set perfetto per stringere l’inquadratura sulla apparizione dei due personaggi dell’intervista e da lì il fiume di parole che apre un vaso di Pandora e per la prima volta emerge in tutta la sua complessità la storia del jazz dalle origini. Quella che un affascinato Lomax riassume così: «È questa la formula principale del jazz: competenza mulatta stagionata nel dolore nero» (Alan Lomax, p. 131).