Jelly Roll Morton, per gli appartenenti alla mia generazione era una foto ingiallita persa nello scatolone della Storia. Una figura sicuramente leggendaria, ma legata più ad atmosfere del tipo 'non sparate sul pianista' che non al jazz di facile presa (almeno nei miei anni post-adolescenziali). Poi il destino mi ha sferrato due bei ceffoni che mi hanno destato dal torpore di pigro ascoltatore e fatto prendere coscienza del valore musicale assoluto di questa icona. La prima sberla me la inflisse Arrigo Polillo nel suo aureo libro Jazz. La vicenda e i protagonisti della musica afro-americana, dove il buon Jelly Roll (che all'anagrafe faceva Ferdinand Joseph LaMothe o LaMenthe) viene cesellato sia come uomo che come musicista in modo avvincente ed avventuroso. Il secondo manrovescio mi arrivò da un 33 giri allegato alla più autorevole rivista italiana di jazz (non facciamo pubblicità!) nel lontano 1987. Grazie a quel disco capii quel che andava compreso. E soffermandomi su incisioni d'epoca e rulli di piano meccanico mi imbattei in capolavori ineguagliabili come Stratford Hunch, Freakish, The Naked Dance, Black Bottom Stomp, Dead Man Blues e Ham'n'Eggs. Ne dedussi che mi trovavo di fronte ad un pianista sopraffino, un autore di genio ed un arrangiatore di non pochi meriti. Poi, ad alimentare la sua fama di artista maledetto (in ogni senso), contribuì in maniera decisiva il meraviglioso libro a fumetti Blues di Robert Crumb (e l'agghiacciante sequenza della sua morte). È quindi con una certa emozione mista ad un pizzico di commozione che accolgo l'uscita, per i tipi di Quodlibet, di questo Mister Jelly Roll. Vita, fortune e disavventure di Jelly Roti Morton, creolo di New Orleans, «Inventore del Jazz» di Alan Lomax, etno-musicologo, antropologo, produttore discografico ed autore radiofonico altrettanto leggendario a cui si deve (insieme al padre John) la scoperta consapevole delle radici del suono dell'America. E per questo sotto osservazione perenne da parte dell'FBI di Hoover, visto che una parte cospicua delle canzoni del patrimonio folk statunitense è(ra) fatto di canti di protesta. Ad ogni modo, per capire meglio il suo modus operandi, Tom Waits narrava che il nostro entrava in un remoto negozio del sud statunitense e lì catturava con un magnetofono il suono di un registratore di cassa o di qualche altro macchinario di cui avremmo certamente perduto la memoria. Lomax venne pure in Italia, negli anni '50, per documentare a livello sonoro la ricchezza e lo splendore della nostra tradizione musicale popolare (in particolare del sud). Ne cavò un libro fotografico, con didascalie, di raro incanto, ossia L'anno più felice della mia vita. Un viaggio in Italia (1954-55) (Il Saggiatore, 2008). Inoltre, gran parte del materiale che andava raccogliendo questo signore, dopo averlo riccamente documentato e catalogato, confluiva inesorabilmente nella Biblioteca del Congresso di cui era impiegato. Tornando al libro, dunque, è bene subito dire che è un documento straordinario. Unico. Un pezzo rilevante della Storia d'America. E per quanto apparso nel 1950 negli USA questa è la prima volta che viene pubblicato in Italia, dopo quasi settant'anni. Per di più in una ricca edizione che spicca per la qualità della cura dovuta all'ottimo Claudio Sessa, ad un'introduzione ed una postfazione, rispettivamente, di due autorità come Stefano Zenni e Lawrence Gushee, alle illustrazioni di David Stone Martin ed all'attenta traduzione di Giuseppe Lucchesini. La genesi del libro fu singolare e dettata dall'inesauribile curiosità ed all'impareggiabile fiuto di Lomax. Attratto da una lettera che Morton mandò nella primavera del 1938 ad una testata del Maryland, dove il musicista creolo si autoproclamava 'originator of jazz', pensò bene di invitare l'artista il 21 maggio di quello stesso anno proprio nella sede della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti. Ma il punto di vista che muoveva l'etno-antropologo non era del tutto centrato, dato che fu soprattutto attratto dal fatto che nella missiva Morton citava un brano folk-blues (il territorio che affascinava Lomax), Alabama Bound, che era nel cuore del buon Alan. Quindi con questa intenzione, diligentemente, intervistò Jelly Roll (che nello slang della Louisiana indica i genitali femminili ed il loro apprezzamento). E voleva ottenere dalla sua viva voce preziose informazioni sui suoi rapporti con la musica rurale e rooted. Invece, dopo che il musicista si soffermò quanto bastava sul brano amato dal suo intervistatore, se ne uscì con una meravigliosa testimonianza sui primi vagiti del jazz ed in generale sulla scena musicale novorleansiana di inizio '900. Vanno dette, però, due cose: 1) Lomax non era granché attratto dal jazz, visto che al tempo dell'intervista questa musica non godeva ancora dello status di forma artistica (la scoperta in tal senso iniziò in maniera vivida e sistematica a cavallo tra i due decenni '30 e '40) ed anche perché lo considerava alla stregua di musica commerciale voluta dall'establishment radiofonico, come puntualizza Zenni all'inizio del volume; 2) la semi-mitomania fantasmagorica (leggasi inemendabile tendenza alla bugia parossistica) di Morton si rivelò più di un semplice capriccio del pianista. Vezzo che in qualche modo avrà influenzato il nostro Alan, dato che ciò che trovate nel volume è, in più parti, una rilettura in chiave letterario-romanzesca del racconto, già per sé alquanto autocelebrativo, del musicista di New Orleans. Infatti la studiosa Katy E. Martin ha passato al setaccio, poco più di un decennio fa, la vulgata lomaxiana alla luce delle registrazioni che scaturirono dall'incontro del '38 (Jelly Roll Morton: The Complete Library of Congress Recordings by Alan Lomax, Rounder Records, 2005) e notò tra i due resoconti più di una incongruenza. Ma a parte questo, l'eloquio guascone ed autoreferenziale di Morton avvince e conquista, sebbene con un retrogusto di razzismo particulare, per lui non del tutto bianco e non completamente nero, nei confronti di quelli visibilmente black. Cosa che si avverte a partire dall'esibizione delle sue origini a suo dire francesi e non esattamente annoveratili tra i gentleman. Ma sorvolando su questo non nobilissimo aspetto ci si trova catturati dalle sue mille avventure musicali, umane e galanti. Come ad esempio la sua spiegazione di come il pianismo rag si evolvette fino allo stile dixiestomp (hot avrebbe detto Morton) che lo rese celebre ed unico. Oppure la gustosa narrazione dei suoi trascorsi a Storyville (il quartiere a luci rosse di New Orleans), i primi soldi fatti come pianista nei bordelli, la genesi di quello che chiamiamo jazz, l'ammirazione/rivalità per/con Tony Jackson, la sua idiosincrasia per lo Stato del Mississippi, il suo legame (e ti pareva!) con l'Alabama, la conquista della California, i rischi del mestiere (leggasi coltellate ed il munirsi precauzionalmente della 38 Special), il suo amore per Mamanita (Anita Gonzales) e per Mabel Bertrand, le prodezze dei Red Hot Peppers (il gruppo più importante che ebbe) e tanto altro che affascina e sorprende. In più c'è un interludio in cui vengono esaltate le gesta di artisti come Sidney Bechet, Freddie Keppard, Papa e Paul Dominguez, Johnny St. Cyr e Alphose Picou, nonché di maîtresse come Gypsy Schaeffer, Bertha Weinthal, Flora 'Snooks' Randella e Josie Arlington. Succulenta pure la ricca appendice del libro contenente l'elenco dei dischi incisi dall'artista, gli atti relativi alla sua sepoltura e, per la gioia di chi accarezza velleità pianistiche, gli spartiti di brani epici del repertorio mortoniano come Mamie's Blues, Winin' Boy Blues, Buddy Bolden's Blues, una variazione sul Miserere tratto dal Trovatore verdiano, Indian Song, C'Etè N'aut' Can-Can, Moi Pas L'Aimez ça, le già menzionate Alabama Bound e The Naked Dance, Georgia Skin Game, la celeberrima King Porter Stomp e Jelly Roll Blues. Libro imperdibile, immancabile, storico.