Recensioni / Kafka scrittore “politico” e la sua lingua di minoranza

Gentili lettori, quante persone vivono ancora oggi in una lingua che non è la loro? Intendo considerare in questa domanda sia coloro che si trovano a vivere in un Paese straniero che ciascun individuo rispetto a se stesso. Si tratta pur sempre di una questione d'identità, laddove nel secondo caso il linguaggio non scava, non opera nessun solco, non scopre, non connota, non conosce. Cittadini e stranieri nella medesima situazione interpretativa, in cui la rappresentazione estensiva ha la meglio sulla funzione intensiva del linguaggio. Si rimane nel possibile, nel lento peregrinare di un umano trascinato, di appartenenza. Nell'iconostasi di un culto prestabilito e che può al massimo replicare se stesso. Questa tendenza permea le categorie letterarie, per cui la scrittura perpetua un fare di rappresentanza, non più nemmeno metaforico e simbolista, ritenuto troppo alto e astruso per l' ascoltatore/lettore/visore, ma di reiterazione manichea, sino a reificare il cliché, la matrice sfiancante ma per questo di conforto. Ora, se Gilles Deleuze e Félix Guattari, nel loro saggio dal titolo Kafka - Per una letteratura minore, tradotto da Alessandro Serra e pubblicato dall'editore Quodlibet, si sono occupati di un Franz Kafka alle prese con una lingua minore, si sono posti, in anticipo sui tempi, la questione dell'estraneità al contesto etnico-linguistico di arrivo.
Kafka era un ebreo reco che aveva scelto di scrivere in tedesco. Di per sé il suo immaginario non poteva fare appello all'ufficialità della lingua di Stato ma doveva necessariamente "minorizzarsi", nel senso dell'uso che una minoranza fa di una lingua di maggioranza. È un processo interessante se consideriamo il complesso identitario che attraversa l'uomo. I due studiosi, tra i massimi del panorama contemporaneo, analizzano l'opera di Kafka permettendoci una fluviale materia d'approfondimento. Dai concetti di deterritorializzazione necessaria a cogitare una nuova sobrietà linguistica, all'uso intensivo della lingua come possibilità di raggiungere l'estremo e di superarlo. Per Kafka, scrittore altamente gioioso, c'è quasi un'insofferenza speculativa nel momento in cui viene reputato un autore tragico, intimista, angoscioso, colpevole, impotente. È soprattutto un autore fortemente politico e, ponendosi come uno straniero nei confronti della propria lingua, rifiutando la letteratura dei padroni, identifica la scissione volontaria tra rappresentazione di Stato e essenza intrinseca. Le sue lettere e il patto diabolico, i racconti e i divenire-animali, i romanzi e concatenamenti macchinistici, rimandano a un progetto socio-politico-giuridico in cui la scrittura significa desiderio che mette in causa tutte le istanze.
Il processo non è altro che il resoconto del funzionamento di una macchina, così come La metamorfosi è un divenire-animale come tentativo di via di fuga a un'effettiva riedipizzazione familiare che conduce alla morte. «Kafka teme due cose soltanto, la croce della famiglia e l'aglio della coniugalità».
L'Antiquario vi saluta