Ce li aveva consigliati Ermanno Cavazzoni, a Chiasso, nel corso dell'ultima
edizione di Chiassoletteraria. Non per
caso: proprio lui ha scelto di ripubblicarli nella sua collana «Compagnia
extra» presso l'editore maceratese
Quodlibet. «Sono due romanzi russi,
proprio come quelli di una volta» ci
aveva detto. L'allusione era chiarissima,
con riferimento alle opere di alcuni tra i
maggiori scrittori della storia dell'umanità: Tolstoj, Dostojevski, Lermontov,
Gončarov, il Gogol delle Anime Morte,
e magari anche Bulgàkov e Pasternak.
Libri che sono delle colonne portanti
della letteratura, senza dubbio, e rappresentano per ogni lettore una pietra
di paragone assoluta (anzi, a volte capita di pensare che forse solo dopo averli
letti ci si può sentire a posto con la coscienza di lettori...).
In ogni modo, la proposta dello scrittore emiliano coglie perfettamente nel segno. Pur se volumi di una
certa «mole», come il modello russo in
qualche misura prescrive, I signori Golovlëv (370 pagine) e Fatti d'altri tempi
nel distretto di Pošechon'je (604 pagine)
funzionano perfettamente da calamite
per l'attenzione. Come i migliori romanzi russi, appunto, risucchiano chi li
abbordi fuori dal tempo e dallo spazio,
e lo trasportano nella Russia della seconda metà dell'800: più precisamente, il loro obiettivo è di farci osservare
dall'interno un cambiamento storico
di portata fondamentale per la civiltà e la cultura russa. Nel 1861, infatti,
con un decreto dello Zar Alessandro
II, venne abolita la servitù della gleba.
In questo modo venne a cadere un sistema secolare di gestione della terra e
dei rapporti sociali tra nobiltà terriera e
popolazione contadina.
Occultandola sotto una finzione
narrativa solo leggermente ritoccata,
Saltykov-Ščedrin ci racconta in entrambi i libri sostanzialmente la storia della sua famiglia. E se in I signori
Golovlëv (pubblicato originariamente
nel 1880) protagonista del racconto è la
figura di sua madre, trasposta in quella della volitiva e ambiziosa Arina Petrovna Golovlëva, in Fatti d'altri tempi
(uscito nel 1890) il racconto si fa molto
più ampio e dettagliato per renderci
l'esperienza esistenziale di Nikanòr
Zatrapeznyi, un possidente che decide di descrivere nei dettagli minimi la
vita della sua infanzia nella tenuta di
campagna della propria famiglia. Da
entrambi i libri, in sintesi, si ricava un
ritratto vivo e coinvolgente di quella che poteva essere la vecchia società russa, la stessa, per intenderci, che
come lettori occidentali siamo abituati
a trovare nei maggiori autori di quella
regione. La differenza, forse, è che qui
non esiste una vera e propria trama
romanzesca. La forza del racconto sta
piuttosto nel suo essere una saga familiare, in cui il disegno dei destini dei
vari personaggi ci attira e ci incuriosisce, spingendoci a seguirli senza esitazione lungo centinaia di pagine.
L'occhio di Saltykov-Ščedrin è
particolarmente arguto e la sua descrizione mantiene un tono sottilmente
ironico che rende la lettura piacevolissima. Non che manchino le situazioni
drammatiche, in questo contesto in
fondo così complesso e controverso.
Non che manchino i racconti di ingiustizie, dolori, violenze. Ma tutto ciò che
fa parte di questo mondo arretrato e
eticamente discutibile viene raccontato da Saltykov-Ščedrin per mostrarne i
lati oscuri, manchevoli: lo scrittore era
di fatto un osservatore illuminato, un
convinto innovatore, che con i suoi libri voleva promuovere un mutamento
di mentalità. In quest'atteggiamento
tutto sommato puskiniano, Saltykov-Ščedrin si dimostra un narratore veramente moderno. Non stupisce ad esempio scoprire che Bulgàkov si ritenesse
un suo seguace (si veda la sua lettera
all'autorità politica russa per ottenere
da Stalin il permesso di espatriare).
I volumi proposti da Quodlibet
sono affascinanti perché permettono
di osservare da vicino il complesso atteggiamento reciproco tra proprietari
terrieri e contadini. Un atteggiamento
che ci sembra di intravvedere ancora
oggi nel modo in cui il popolo russo si
mette in relazione con l'autorità centrale che regola lo Stato. Come se certe radici storiche nel modo di considerare il
«potere» fossero ancora presenti e vive.
«In Russia, "Governo" si traduce vlast',
che significa anche "potere" e "autorità". Questi termini sono sempre stati sinonimi in Russia, e la vlast' si è sempre
sviluppata dall'alto al basso, dal governo onnipresente attraverso gli stuoli di
cortigiani, burocrati o commissari, fin
al narod, il popolo. Alla base, tuttavia,
la vlast' è sempre una e indivisibile, e
per i russi qualsiasi tentativo di dividerla e diluirla equivale a creare debolezza
e caos».
Lo dice il giornalista americano
Serge Schmemann nel suo libro Echi
della Storia (Garzanti, 1999). Un'analisi
che, riportata ai romanzi di Saltykov-Ščedrin, riesce a spiegarci tanto la remissività con cui i contadini accettano
le angherie di Arina Petrovna, quanto
l'atteggiamento servile con cui i nobili
si adattavano alle regole di corte degli
Zar. La legge del 1861, cercando di indirizzare la società verso un modello
democratico ispirato al liberalismo europeo, decretò in realtà una frattura sociale e, in prospettiva, forse addirittura
la fine dello zarismo.
Per Schmemann, la stessa Rivoluzione d'Ottobre non fu altro che un
tentativo di ricostituire quella vlast' a
cui i russi aspirano per abitudine secolare. Forse la stessa dirigenza russa di
oggi sembra ispirarsi a quel principio
dominante, quando decreta la fine del
liberalismo e gli preferisce una volontà di potere forte e determinato. Ecco
quindi che Saltykov-Sc'edrin, uscendo
dal contesto romanzesco, può condurci
a riflettere sull'oggi. «La storia è sempre storia contemporanea» diceva, più
o meno, Benedetto Croce. Forse anche
per la letteratura è lo stesso.