Recensioni / Scrittori, mutui, case e felicità

Valentina mi dice che ha comprato casa. Mi dice che non sa ancora che mutuo farà, se lungo o breve. Non sa nemmeno ancora quale sarà la rata, ma vorrebbe far mettere il parquet e fare le pareti blu e sa già benissimo che tipo di arredamento metterci. Tanto è piccola mi dice, si fa alla svelta, Tanto poi non andrò a viverci, mi dice. Già, perché il lavoro la porta sempre lontano da Milano e starci non le conviene. Il mondo si muove sempre più al contrario, il che il più delle volte significa che o la fine del mondo è vicina, oppure che stiamo sbagliando noi a muoverci, a rapportarci con la realtà rendendola più terribile e faticosa di quanto potrebbe essere.
Una casa oggi non basta per avere luogo e appartenerci, nemmeno se si riesce ad averla con più di una stanza. Alle volte non basta nemmeno arredarla, farlo per bene e con cura per sentirla davvero propria. Alle volte non serve a niente perché l’idea dell’affitto è sempre un po’ troppo ossessiva dove per ossessiva si intende cara e dove per idea si intende la totale impossibilità a comprarne una, ad accedere o accendere (mai capita con esattezza la differenza) un mutuo.
Mutuo: parola che dovrebbe contenere vagamente qualcosa di positivo, anzi di para collettivo e cooperativo, ma che invece assume sempre più la forma idiomatica di un muro, di un invalicabile ostacolo verso una possibile felicità urbana.
L’unica volta che ho provato a fare a meno di un affitto è stato quando per quasi un anno ho pensato di fare a meno di una casa provando a stare da amici e amiche: affitti brevi di qualche settimana e ospitate random. Una sorta di airbnb artigianale e locale con un solo cliente e solo su una città, Milano. La città che cresce, mica dico di no.
Di quella vivace esperienza di condivisione tra amici e amiche porto ancora i segni sulla schiena: materassi corti, divani a semicerchio (meraviglie del troppo dimenticato Ico Parisi) sopra i quali dormire a banana, stanze fredde e al tempo stesso affollate. Io che dormo e lei che studia, io che leggo e lei che ascolta musica. Io che ascolto e lui che parla e parla e ancora parla.
Certo, porto con me anche il ricordo di un abitare divertente e potrei dire felice. Felice per quanto abbia potuto in quel modo stare lontano da me, dalla tremenda solitudine che spesso colpisce il provinciale a Milano che raramente è Luciano Bianciardi de La vita agra e molto più spesso è l’Artemio di Renato Pozzetto.
Condividere una casa è qualcosa che lega per tutta la vita, senza che questo possa apparire ora come una minaccia per chi lo ha fatto in passato con me. Lega perché ogni spazio abitato è come tale intimo e come tale richiede cura e attenzione reciproca. Apertura alle differenze: da quelle più prevedibili a quelle più nascoste, abitudini, vezzi e manie comprese. Ma la condivisione è anche una conquista di spazio perché il valore aumenta e la qualità dell’uso che se ne fa anche, va in circolo un po’ più di comprensione e alle volte anche di felicità. Si ride molto e si tengono a bada i fastidi che si rivelano poi più propri che di altri.
Progettare uno spazio significa rendere questo spazio consapevole, significa pensarlo per delle persone che lo possano condividere. Torna così utile di questi tempi un classico di Lucius Burckhardt, Il falso è l’autentico, fortunatamente da poco riportato in libreria da Quodlibet. Il testo di Burckhardt è fondamentale per come lo sguardo dell’autore slitti in maniera tutt’altro che scontata dai confini della casa a quelli della città, e così i diritti: non più e non solo il diritto alla casa, ma il diritto alla città ossia immaginare una pianificazione urbana che sia un progetto realmente e concretamente democratico.
Burckhardt contiene nelle sue riflessioni molti dei punti nodali della nostra epoca che spesso vengono vissuti come incombenze assurde o comunque tutt’altro che virtuose. Aprire le città è una delle necessità per non dire degli obblighi del nostro tempo. È fondamentale farlo per non trasformare il tessuto urbano in un museo all’aperto dedicato al kitsch cittadino. Vere e proprie strade morte prive di abitanti, perché la città o è diritto e diversità oppure non è.
Il discorso va oltre la questione centro e periferie o periferie e quartieri, ma riguarda il paesaggio nella sua sostanzialità anche emotiva, una sorta di possibile festa mobile per citare il grande "Papa" Hemingway, che rischia invece continuamente la castrazione.
Un’irreggimentazione che è data sempre più da due elementi sempre più pressanti le diseguaglianze economiche e la chiusura dei diritti. E in tal senso il titolo del libro di Davide Coltri, Dov’è casa mia (minimum fax) è quasi un grido disperato. Coltri raccoglie racconti e testimonianze di chi proviene da un mondo in cui le città sono spesso sinonimo di prigione, guerra e violenze. Di chi è in fuga e va alla ricerca di una casa non solo nuova, ma restituiva di quanto è stato abbattuto e reso impossibile.
Cercare casa, trovare uno spazio è un vero e proprio movimento comune, un elemento di appartenenza sempre più evidente anche in Italia, nonostante l’alta percentuale di proprietari di casa, anche perché vivere e lavorare sempre e solo nella stessa città è pressoché impossibile.
E allora immaginare più apertura significa anche trasformare un’angoscia in una curiosità, un peso in una possibilità di leggerezza. È qualcosa che riguarda chi una casa ce l’ha e chi no, chi ha diritto ad averne una e chi no, la barca è la medesima, non esistono città esclusive quelle che lo sono hanno dei vigilantes e il filo spinato lungo i confini, qualcosa che assomiglia a ben altro che a un luogo vitale.
Aprire le porte è il modo migliore per smetterla di scappare dalle finestre obbligandosi ad una tristezza casalinga perenne fatta di pasta al tonno e birra finto artigianale. Restituire continuità tra casa e strada, tra relazione e occasione è il modo migliore che abbiamo per accogliere restituendo alla vita il giusto bisogno di strada e di casa. Nulla di complesso è solo la realtà che va abitata.
Ieri ho disdetto l’affitto: "Ma da quando sei andato via / Questa no non è casa mia”, cantava Dalida, mentre Valentina perplessa mi guarda come un fossi un deficiente. Le ho promesso che mi occuperò io del parquet da mettere a nuovo e forse anche dei fiori (blu). Io con le valigie che entro in casa sua, lei che esce con le valigie da quella che ormai è casa mia. Ci salutiamo senza chiavi tra le mani.