Recensioni / Giani Stuparich. Nel segno di Trieste

A lungo città di frontiera e segnata da uno stigma cosmopolita, così ibrida e singolare da sembrare anacronistica, Trieste si è retrospettivamente profilata, viceversa, come un crocevia della cultura italiana secolare. Già sottovalutati o negletti, Italo Svevo e Umberto Saba si scoprono oggi numi tutelari o, anzi, stelle fisse di una costellazione che include lirici del valore di Virgilio Giotti (non più afflitto, per fortuna, dalla taccia di "dialettale") e, giù per li rami, una intera couche di scrittori di rango quali da ultimo Claudio Magris e, triestino d'adozione, l'indimenticabile Giorgio Pressburger.
Ovviamente diversi e talora antipodi fra loro, a detta di Bruno Maier, massimo studioso della triestinità letteraria, li unisce un duplice tratto distintivo: il rigore etico (o meglio ancora il senso di responsabilità che comporta ogni pagina scritta) ma soprattutto la convinzione che il valore della letteratura è comunque subordinato allo statuto di verità e ai vincoli di quell'etica medesima. Giani Stuparich (1891 - 1961), che è stato fino in fondo figlio della città e del suo secolo, non fa eccezione. Frutto di una borghesia mescolata (padre di Lussinpiccolo, madre ebrea triestina) il suo avventuroso romanzo di formazione, compiutosi a Firenze tra i giovani inquieti della rivista «La Voce», duplica la parabola dell'irredentismo e culmina nel rifiuto di servire nell'esercito austro-ungarico per arruolarsi invece in quello italiano: medaglia d'oro al valor militare, sopravvive in trincea all'amatissimo fratello Carlo e all'amico Scipio Slataper, l'autore di Il mio Carso, facendosi commosso testimone di entrambi nel suo libro più complesso, di ambizione epica e di tempra che fu detta mazziniana, il romanzo Ritorneranno (1941) che è un bilancio della sua generazione ma anche un sofferto congedo dai miti della giovinezza.
I vent'anni della dittatura fascista Stuparich, insegnante, li passa al chiuso del Ginnasio di Trieste e nella diserzione di qualunque uscita pubblica. Avrebbe detto di sé nell'autobiografia Trieste nei miei ricordi (’48): «Vociano, socialista, slavofilo... io divenni narratore per la ingiustizia degli uomini e per la noia del mondo». Autorecluso nella villetta di Scorcola, a picco su Trieste, sceglie di fare silenzio sulla realtà politico-sociale e nonostante l'immagine pubblica da eroe della Grande Guerra egli è un Bartleby che si sottrae, coerente e cocciuto, dicendo di continuo di no. Saba, Giotti, Silvio Benco, lo stesso Svevo, così come raggiante nel ricordo lo spirito socratico Vittorio Bolaffio, pittore modernista e poeta del bleu marine, sono i lari del silenzio domestico in cui opera uno scrittore che dà voce a nudi sentimenti, un interprete sottilissimo dell'adolescenza e, specialmente, della psicologia femminile.
La misura del racconto o del romanzo breve, la veloce imbastitura, la stenografia delle emozioni sono i tratti elettivi dello scrittore come testimonia la organica ristampa di Quodlibet, nella cura precisa di Giuseppe Sandrini, degli smilzi e tuttavia preziosi libretti della maturità, da Guerra del '15, diario in presa diretta dalla trincea, a Un anno di scuola, tenera elegia di vena autobiografica, e finalmente L’isola, che per giudizio unanime è il suo capolavoro. Scritto nell'estate del '41 con la leggerezza di chi si è appena sgravato del peso luttuoso di Ritorneranno, qui il racconto è affiancato da un altro del '33, Il ritorno del padre, che ne rappresenta in qualche modo l'antefatto psicologico. E scrive Sandrini in proposito: «Il suo stretto legame con L’isola è esplicito, non solo per i rimandi interni fra i due racconti, ma anche perché nel 1961, d'accordo con l'autore, Pier Antonio Quarantotti Gambini li scelse come primo e ultimo della vasta antologia di Stuparich da lui allestita per Einaudi». Sia qui detto per inciso, Quarantotti Gambini, giovane amico e allievo di Stuparich, è un altro triestino di prima fila, un altro sabiano onorario la cui sonda introspettiva va alla massima profondità nella Bildung intitolata nel ’47 L’onda dell'incrociatore (appena riproposto, e meritoriamente, negli Oscar Mondadori).
L’isola è un racconto di elementi naturali e di pura traslucida atmosfera, dove un padre vecchio e malato chiede al figlio di accompagnarlo un'ultima volta all'isola natale, dentro un vortice di acque deserte e di luce abbacinante. Padre e figlio non hanno nome ma la matrice autobiografica, ancora una volta, è evidente, e non per caso Stuparich ha sempre ritenuto L’isola la propria Telemachia, cioè lo spazio-tempo di una emancipazione tanto più dolorosa quanto più ammutolita. Perché non c'è Itaca se non nella sua tragica, beffarda, parodia, la ritrovata Lussinpiccolo di un padre che ha cominciato a morire e non c’è viaggio se non nella simulazione di una marcia sotto il sole, verso una scogliera la cui suggestione non sta più nella promessa del volo, di un tuffo,ma nella imminenza del vuoto e oramai dell'abisso: «Il silenzio, il passo meccanico, le agavi mostruose, il vento, il mare in fondo, l'ampiezza del cielo: tutto su quella strada aveva un aspetto tragico». Stuparich non sente il bisogno di calcare la mano, non aggiunge ma toglie, la sua figura retorica è l'ellissi, insieme con la leggerezza delle sfumature e delle dissolvenze. Leggerezza ma non fragilità, per l'appunto, pure se Stuparich la vive talora con senso di colpa e in Trieste racconta di come una volta Piero Gobetti si fosse rifiutato di rispondere alla domanda se gli piacesse o meno il paesaggio limitandosi a un sorriso sibillino, come di chi allude all'esistenza di cose molto più importanti. Stuparich se lo è sempre rammentato. Nel dopoguerra non esce se non raramente dal riserbo, appena violato dalla stesure delle sue memorie, da qualche ristampa e da riconoscimenti per lo più di prammatica. Non poteva giovargli la testarda triestinità, il suo profilo di galantuomo.