Recensioni / Andrea Zanzotto, In nessuna lingua. In nessun luogo

«L’ipotesi che questa collana propone è che oggi alla grammatica di Dante corrisponda l’italiano come lingua nazionale e al volgare i cosiddetti dialetti e che, come allora, la poesia italiana, che sembra attraversare una fase di crisi o di stasi, potrà rinascere solo se tornerà a nutrirsi di questa intima diglossia». La collana in questione, Ardilut (‘valeriana selvatica’) definita «di poesia bilingue» e da cui si è estratto questo lacerto dalla nota finale, è curata per Quodlibet nientemeno che da Giorgio Agamben. Il disegno dell’Ardilut che campeggia sulla copertina è lo stesso che Pier Paolo Pasolini usava nelle sue pubblicazioni giovanili in friulano, ai tempi dell’Academiuta di lengua furlana, e infatti il primo volume, per certi versi programmatico, è dedicato alla riedizione, arricchita di due traduzioni (una di servizio eseguita da Graziella Chiarcossi e una inedita in versi del poeta Ivan Crico) di un testo teatrale in friulano del giovane Pasolini, I Turcs tal Friùl (I Turchi in Friuli), allegoria del Friuli occupato, durante la Seconda guerra mondiale. Programmatico, si diceva, perché, ripercorrendo nella sua Prefazione le riflessioni sul dialetto del giovane Pasolini, Agamben ne sottolinea il bilinguismo, inteso in senso continiano, mettendo l’accento sulle possibilità vivificatrici, per la poesia italiana attuale, del dialetto in quanto «immediatamente ‘lingua-poesia’», tale da risolvere la dicoto- mia tra langue e parole nel «momento puramente orale della lingua», che però è di fatto un’idealità primitiva fantasmagorica.
Questa lunga introduzione si è resa necessaria perché il secondo volume di detta collana ha per oggetto le poesie in dialetto di Andrea Zanzotto, raccolte sotto il titolo di In nessuna lingua In nessun luogo. Le poesie in dialetto 1938- 2009. Si tratta, come spiega Stefano Dal Bianco nella Prefazione, di un’operazione di estrapolazione dei testi dialettali dalle opere di Zanzotto che «non è stata indolore», perché «alla costante contaminazione di stili e di temi fra italiano e dialetto bisogna aggiungere due fatti che complicano ulteriormente la situazione», rappresentati dalla «diacronia interna nell’uso del dialetto in Zanzotto» da un lato, e dall’altro dal fatto che «i libri di Zanzotto sono organismi delicati, con una architettura ferrea», per cui «estrapolare [le poesie in dialetto] dal contesto può modificarne la funzione e senz’altro impoverirne il significato».
A questo punto, viene in soccorso l’articolata Nota introduttiva di Agamben, La lingua che viene, che motiva l’operazione aggiungendo un tassello interpretativo a quella precedente pasoliniana (e che porterà alla pubblicazione anche di noti poeti viventi che scrivono in dialetto, quali Luciano Cecchinel e Pier Franco Uliana): l’assunto è che, come per Pasolini, sussista una diglossia tra dialetto e italiano, dove il dialetto rappresenta per Zanzotto, in quanto la lingua materna e della madre, una sorta di «oralità perpetua», che la contrappone alla «lingua nazionale, astratta e paterna»; e, come per Pasolini, in Zanzotto, è presente «l’idea di un momento sorgivo del linguaggio, che, neutralizzando l’opposizione fra lingua e parola, ci obbliga a ripensare da capo il fatto linguistico», per cui, di là dall’essere considerato lingua morta, il dialetto, affermava Zanzotto, «deve essere sentito come guida (al di là di qualunque ipotesi sul suo destino) per individuare indizi di nuove realtà che premono ad uscire».
Il colpo di genio dell’interpretazione che Agamben dà della diglossia zanzottiana, che da solo basterebbe a giustificare il volume (come sempre il filo logico del discorso del filosofo si svolge in maniera affascinante), è l’assunto, derivato da un’interpretazione di un passo di Filò (1976), che il dialetto abbia nella concezione di Zanzotto uno spessore teologico: il Logos erchomenos («lingua che viene») che irrompe tra i versi dialettali della quarta sezione, e si connette direttamente con il successivo «vecio parlar» – spiegato già da Zanzotto nella sua nota come «veniente di là dove non è scrittura [...] né grammatica: luogo dove il logos [...] rimane quasi ‘infante’ pur nel suo dirsi» –, è lo stesso termine che si usa nel testo greco della Settanta e nel Nuovo testamento per designare il messia; questo, in connessione con la definizione zanzottiana del dialetto come «primo mistero» (inteso qui come ricordo dell’infanzia della recita del rosario), poiché il primo mistero è l’annuncio alla Vergine, fa sì che «nel dialetto [...] si compie, come nelle parole dell’angelo, l’annuncio del Logos che viene». Ne deriva che il dialetto, inteso come factum loquendi, si presenta nella struttura doppia di «momento sorgivo» e di sua fissazione nella lingua», cioè è insieme tangibile come/con la lingua, ma anche in-comprensibile/in-dicibile, essendo il suo spessore teologico insito in «quell’esperienza sorgiva della parola di cui non è possibile [...] quel sapere che chiamiamo grammatica» – esattamente quello che Zanzotto diceva della poesia, e che dà il titolo a questo volu- me: il suo non essere «in nessuna lingua, in nessun luogo».
Tuttavia, in altri suoi scritti teorici, Zanzotto fornisce elementi paralleli che, sommati a questi, indirizzano anche a una lettura diacronica meno ontologica e più geografico/geologica pure della questione dialettale – non a caso l’ultimo libro si intitola Conglomerati –: esistono cioè un luogo preciso, una materia precisa, un tempo e un megatempo precisi in tutto l’arco di svolgimento della poesia di Zanzotto. Per iniziare con il confronto con Pasolini, Zanzotto, pur affermandone la vicinanza nel connubio dialetto-lingua materna e dialetto-luogo, in un’intervista ad Amedeo Giacomini del 1984 ne sottolinea anche la diversità, laddove l’interesse per il dialetto si configura per Pasolini come «filologico» in senso etimologico, mentre per Zanzotto (come per Noventa) il dialetto è il luogo dove origine e presente convergono nella comunicazione diretta con la «sede materna». Ma volendo seguire l’ordine di apparizione delle poesie il volume Quodlibet, viene incontro per primo non già l’esperimento bifronte di Filò (1976), dove il dialetto iniziale della città di Venezia fa da stura al sostrato più profondo del dialetto solighese, ma la quasi inedita, e meritoriamente recuperata ecloga frammentaria in dialetto sulla fine del dialetto (1969-19 (ri)costruita e ampiamente commentata da Michele Bordin (in «Autografo», n. 43, luglio-dicembre 2001), dove la pluralità delle voci restituisce la pluralità delle situazioni che le voci richiamano, e si tratta del mondo che sta tramontando o si è già inabissato, portando con sé il dialetto a cui è legato.
In questo senso, in due interventi del 1998 e del 1999 Zanzotto è chiaro nell’evidenziare l’identificazione immediata, non letteraria, tra dialetto e luogo, tra deteriorarsi del luogo e urgenza di opporsi a questo deterioramento, fino a giungere alla perdita, e quindi al mutamento antropologico, che ha travolto il luogo e il dialetto. La «lingua nascente» è quindi anche «in contatto e legame con la fisica antropologica e geografica dell’ambiente» (Zanzotto), tanto da definirne una mappa, i cui designati vanno sparendo, interrandosi, come i nomi che li designano. In sostanza, Zanzotto cerca nelle parole dialettali anche «un vero luogo», tanto che a un certo punto egli parla di un «paesaggio geologico, ovvero di una illustrazione della geologia, come se ci fosse consentito sprofondare nelle ere della terra-lingua». Letto da questo punto di vista, da una prospettiva ‘ecologica’, il tragitto delle poesie dialettali qui poste in successione diventa chiaro: è un progressivo interrarsi delle cose e con le cose, dalla discarica linguistica di E pò, muci (Il Galateo in Bosco, 1978), alla sezione centrale di Idioma (1983), con la ri-evocazione dei morti (la serie degli Onde éli) e dei mestieri spariti (Mistieròi); dai senhals, indice di una riflessione metalinguistica, degli elementi vegetali presenti in Meteo (1996), ai cupi bagliori presenti in Sovrimpressioni (2001), dove le Canzonette ispide sperano nella sopravvivenza della poesia e del paesaggio, pur in presenza della fine già accaduta (vedi il monito funebre finale di Nino); fino a Conglomerati (2009), al loro «oltremomdo affetto da dismemoria e alzheimer» (Dal Bianco).
Perciò, sono ancora le parole di Zanzotto (1998) a darci un’altra chiave di lettura di questo volume, ma forse anche dell’intera operazione editoriale promossa da Agamben: «In ogni caso le motivazioni alla scrittura in dialetto restano di largo raggio, perché potrebbero essere anche gli ultimi voli delle parole che se ne vanno e quindi offrire valore di un documento che forse già dopodomani sarà ‘preistoria’». Su questa ipotesi, di un’oscillazione temporale più ampia possibile, si basa la scommessa di questo, come degli altri volumi.

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