Recensioni / Pessoa. Neopagano e scandaloso

Scrive come Nietzsche ed elogia la grande Germania. Smentendo l’interpretazione di Tabucchi

Ah, gli dei: “Sono il frutto dell’ingenua meraviglia umana davanti alla spaventosa realtà dei fenomeni”. E l’unico eterno incrollabile è il destino. Ah, il destino: “È grande e solenne, e l’unico grande tragico del Mondo”. Sono prolegomeni a una rifondazione del paganesimo. A ripercorrere le tracce di António Mora si rischia di perdere quel Fernando Pessoa così consolatorio e così progressista per come ce l’ha ammaestrato Antonio Tabucchi da tempo ormai immemore. C’è da tenersi forte, perfino una Dissertazione a favore della Germania nella guerra attuale. Leggiamo: “Le poche sommarie lodi di questo opuscolo si propongono di dimostrare due cose: la prima che, all’interno degli ideali di civiltà ammessi dal volgo intelligibile, la Germania ha tutte le ragioni di comportarsi così; la seconda, che il suo errore, come quello degli altri, deriva dalla corruzione che lo spirito del cristanesimo ha impresso su tutta l’Europa”.
Sembra Friedrich Nietzsche e la guerra cui fa riferimento Pessoa è quella dell’Impero germanico, quello stesso che incantava un poeta sommo quale il nostro Dino Campana, ma la Germania è il tabù fondamentale: “Sarà oggetto della mia approvazione il modo in cui i tedeschi affrontano la realtà delle cose, vedendole come esse sono, e non come il nostro sentimentalismo vorrebbe che fossero”.
La casa editrice Quodlibet, tra le più sofisticate in Europa, dà alle stampe un bel malloppo inedito di Pessoa: Il ritorno degli dei. Opere di António Mora. Il libro, a eccezione di un passo già tradotto dalla Einaudi in “Una sola moltitudine”, è un inedito che avvalora un inaudito. Pur annunciato due volte in passato in Italia, sebbene ignorato da Joào Gaspar Simoes nel suo Vida e obra de Fernando Pessoa (História di una geraçao), questo libro aiuta a completare la conoscenza del suo autore attraverso la trasfigurazione degli eteronimi. Mora è solo lui, e si stravolge, nel gioco delle maschere pirandelliane, a Pessoa contemporanee, quell’idea che il pubblico benpensante s’era fatto di un mito della letteratura qual è lo scrittore di Lisbona. Nel raccogliere questi scritti, infatti, con il virtuosismo dell’ironia e della sistematizzazione filologica, l’autore di Il libro dell’inquietudine attribuisce al filosofo neopagano Mora quanto di più scandaloso si possa immaginare in tema di ortodossia borghese.

Il filosofo, accudito da Pessoa in una vertigine di sdoppiamento, viene introdotto come un personaggio recuperato da un racconto spezzettato. Gli ingredienti sono appena abbozzati: paziente di una clinica psichiatrica innanzitutto, dunque scrittore di pagine fatte di soli frammenti, note, alambicchi mentali.
Il tutto con Mora presentato sotto le spoglie attoriali di un Eschilo però vestito da antico romano, oppure direttore di una rivista dalla platea internazionale, nella fantasmagoria di una pagliacciata d’alto livello.
È un Pessoa in preda alla follia quello di queste pagine. La pazzia è un furbo pretesto, ovviamente, e poiché il parametro di guerra è già previsto dal titolo, il ritorno deg1i dei, la poetica rivela tutta la potenza distruttiva di un confronto mai sanato tra la vera radice dell’identità europea, che è il paganesimo, e il tardo frutto della modernità, compresa la democrazia qui descritta come “funesto fenomeno sociale nato dall’evoluzione dello spirito cristista, evoluzione, nel caso che si studia, di pura dissoluzione”.
E non c’è solo questo, non si può fare di Pessoa neppure un liberale: “La grande pressione economica dei tempi moderni, agendo sul proletariato, ha prodotto le funeste dottrine femministe; riconoscendo preminenza al commercio – poiché, con l’espansione e la proliferazione delle industrie, ne ha allargato la base –, ha sostituito con una vile infiltrazione pacifista delle nazioni, l’antica, brutale e sana infiltrazione guerriera, così come, spostando il livello di comunicazione dall’aristocrazia alla borghesia, ha abbassato il livello dell’impresa intellettuale, ha abbassato il prestigio di cui anticamente l’intelligenza godeva”.
E non c'è solo questo. Come se non bastasse, Mora-Pessoa se ne viene nel bel mezzo di uno scatto d’avanspettacolo con la citazione d’autore più urticante per le pie coscienze: “Questa decadenza del valore sociale dell’intelligenza è studiata dal signor Charles Maurras nel suo rapido, ma interessante abbozzo. L’avenir de l'inteligence. Maurras fu il capo del movimento di estrema destra Action francaise, più scandaloso di così non si può e il Pessoa che Quodlibet (un catalogo che vanta chicchissimi scandali, da Deleuze ad Agamben, da Matteo Ricci a Carmelo Bene) manda in libreria sul finire di novembre (24 euro) serve a rinfrescare quel serraglio di idee senza parole (la definizione che Furio Jesi, altro autore di Quodlibet, diede del cattiverio dei reazionari) con appropriate parole perfette per architettare la distruzione della ragione, l’abolizione del suffragio universale, e la voluta distorsione della ninna nanna confortante multiculturale.
Non meno scandalosa la virulenta polemica contro il “cristismo” ironicamente fatto salvo solo per una delle sue virtù proclamate, la castità. Detta virtù è anti-naturale, ma aristocratica perché non “plebeizzabile, non generalizzabile”. Mora, investito del ruolo di macchietta, si fa carico di speculare sulla storia e la felicità del paganesimo attraverso le plaghe della società moderna, ma nel rovinio delle idee oppone un’eccezione solo per il cattolicesimo: è “il cristismo meglio organizzato, perché è il più pagano di tutti i cristismi”.
A voler fare un giochino di sovrapposizione, ancorché divertente, questo spiritoso personaggio che presta voce a Pessoa sembra ripercorrere uno dei nostri più geniali filosofi, Manlio Sgalambro: l’introduzione allo studio della metafisica che si legge in Il ritorno degli dei è lo spartito di un tè danzante degno del grande di via Etnea. E chissà se Sgalambro, quello di De Mundo pessimo, non sia che un’altra maschera di Pessoa. E comunque sono gli eteronimi del teatrino costruito da Pessoa a fare spettacolo nel suo angolo di mondo. Aveva la grazia della scrittura il portoghese. Scavava nella pietra della sua penisola esposta alla voragine dell’Atlantico: “Ciò che so è che da questo angolo del mondo, le plus profond de l'occident d'Europe, non è partita né partirà voce che dia alla terra una più grande novità intellettuale”.
Una sorpresa, di certo, questi dei l’hanno garantita. Questa opera omnia, così come promesso da Quodlibet, sono il grimaldello che schiude la profondità dell’immaginario di Pessoa, la sua moltiplicazione di nomi, la biografia scomoda di un monumento da sottrarre immediatamente alla mitologia. Non ultima quella tabucchiana. È perfino patriottico questo Mora-Pessoa: “Non ha Patria quell’uomo la cui Patria non possiede dei propri. Cosa può sentire della patria colui che, anche se possiede degli dèi, è costretto a possederli in comune con gli uomini di altre nazioni? Cosa ne può sapere dei suoi dei, se non conosce i suoi altari? E nessuno può conoscere i propri altari se non ne ha in casa, o nella casa comune dei suoi compatrioti”.
Sembra di assistere al proclama di Carlo Delacroix, cieco di guerra, medaglia d’oro e perciò poeta per procura militare e divina. Altro che Tabucchi.