Attesissimo e assolutamente inaspettato.
Ma, a crederci, accade qualcosa di giusto
— e di grandioso — in questo
mondo. Peter Handke, il più
grande autore vivente di lingua tedesca, ha vinto il premio Nobel per la Letteratura
2019. È una vittoria della seria,
autentica «Letteratura Universale», per citare la categoria
goethiana cui Handke si riferisce costantemente come a
una stella polare. E chapeau
all'Accademia Reale che avuto
il coraggio di conferire questo
riconoscimento.
Quando raccontai all'autore
austriaco che stavo traducendo una pagina al giorno del
suo diario — il suo journal,
come lo chiama lui stesso,
gremito di appunti manoscritti e di disegni, un capolavoro di intelligenza, coscienza
critica e di poesia —, quando
gli dissi che stavo giocando
d'anticipo cosicché, appena
avrebbe vinto il premio Nobel, il testo, pubblicato da un
editore di Salisburgo e ancora
inedito in Italia, sarebbe stato
pronto per l'uscita, lui, senza
tradire un briciolo di ambizione o di rassegnazione, sorrise malinconico alla boutade.
Quando, a Venezia, nel 2016, a
Wim Wenders che mi rivelava
di aver letto e amato dell'amico Peter ogni singola opera, e
di seguirne i diversi e variamente ramificati percorsi letterari fin dalla giovinezza, azzardai osservare di slancio
«devono dargli il Nobel!» il regista del Cielo sopra Berlino mi
guardò con un lampo di gioia negli
occhi fotofobici e replicò: «Sarebbe
bellissimo, e meritatissimo, a chi se
non a lui? Ma è impossibile». Risposte
analoghe ebbi anche da Sophie,
Sophie Semin Handke, la bellissima
moglie francese, attrice di cinema e di
teatro, lettrice appassionata dei testi
del marito. E da Hans Kitzmüller, il
traduttore e primo editore di una delle
opere più alte di Handke, il poema
Canto alla durata che, prima ancora
che da Einaudi, uscì da Braitan in Friuli nel 1988.
Anche agli ammiratori più convinti
e innamorati pareva che Peter Handke
(nato a Griffen, in Carinzia, i16 dicembre 1942) si fosse giocato una volta per
tutte il Nobel per via delle sue posizioni filoserbe all'epoca della guerra nella
ex Jugoslavia. La sua difesa della popolazione slava nella lotta fratricida
nei Balcani e dei bombardamenti della Nato — «costati la morte di migliaia
di civili», disse — fu espressa in varie
occasioni pubbliche, per esempio all'assegnazione contestatissima dei
premi «Ibsen» e «Heine». E venne ripresa nel cruciale I giorni e le opere, il
suo diario di lettore e intellettuale impegnato. Ebbene, la difesa non era stata, così sembrava, capita per via delle
«semplificazioni giornalistiche», della «smania di polemiche», della «facile tendenza a individuare sbrigativamente un nemico» da Handke in questi termini più volte denunciate.
Da allora, dalla fine degli anni Novanta, Handke accentuò l'inclinazione
già viva nel suo carattere a evitare la
dimensione pubblica, la stampa, il
mondo rutilante dell'industria culturale da lui guardato con forte sospetto.
Anche oggi c'è quasi da temere il suo
commento all'assegnazione del premio Nobel che anni fa, nel 2014, quando a riceverlo fu l'ammiratissimo Patrick Modiano, definì una «falsa canonizzazione della letteratura». Il suo telefono suona a vuoto nella casa di
Chaville, fuori Parigi, dove vive da
quasi trent'anni. E Sophie, la moglie,
rispondendo emozionatissima, dice
che, «come immaginerai, oggi Peter
preferisce stare in pace» e aggiunge
enigmaticamente: «Anche se in pace
non è esattamente la parola giusta...».
Che parli il suo lavoro allora. Di prosatore «ingegnoso», osserva con precisione il giudizio della commissione
di Stoccolma: di autore e stilista, cioè,
dalla scrittura densa e pensosa, irriducibilmente complessa e insieme
spontaneamente musicale, parola di
traduttrice. Di saggista originale votato a «tentare» — è il vero significato
delle sue Versuchungen, ovvero i «saggi», gli «assaggi», le «tentazioni» —
spazi riservati e desueti, ed esperienze
poco spettacolari: il luogo tranquillo,
il sottobosco dei funghi, la stanchezza, la feriale quotidianità delle giornate riuscite. Di drammaturgo audace e
curioso, pronto a insultare il suo pubblico, come fece ai suoi esordi, per
dargli uno scossone, e a immaginare
sulla scena le infinite possibilità della
vita umana: «II teatro, così verosimile,
è per me un'occasione per immaginare vite possibili», mi disse tenendo in
mano l'edizione fresca di stampa dello
scespiriano Ancora tempesta (pubblicato da Quodlibet). Di narratore spietatamente minuzioso, capace di frantumare la coerenza di una trama sotto
l'occhio sfaccettato de I calabroni (appena ristampati da Guanda). La varietà dei generi letterari frequentati e
l'estro nell'esplorazione dello stile
da Handke perseguito per una vita, tenendo fede alla spavalderia del giovane che, nel '66, al congresso letterario
di Princeton, ardì prendere la parola
criticando «l'impotenza descrittiva»
del Gruppo 47 — non facciano pensare a uno sperimentalismo gratuito.
Handke è un autore classico. Omero
e i tragici (che legge infaticabilmente
in greco), Goethe e Hölderlin sono i
suoi numi tutelari. La sua attenzione
di autore, di lettore, di «esploratore
delle periferie dell'esperienza umana», è rivolta, ha scritto e ripetuto più
volte, al fiume carsico della Letteratura Universale, che, anche quando pare
sommerso dal rumore del mondo, di
tanto in tanto, e sempre a sorpresa,
torna a sgorgare.