«La benedizione della
vita non dipenderà mai
dalla capacità di esprimere
il mondo con la voce, ma di
capire il cuore». Aprite il vostro cuore
e correte a leggere Malintesi, il toccante
romanzo di Bertrand Leclair che esce
in italiano per Quodibet il 17 ottobre.
Lo scrittore e drammaturgo francese,
che ha vissuto due anni a Roma - a cui
ha dedicato il romanzo Perdre la tête
- firma un gioiello letterario attraverso
la storia di Julien Laporte, nato sordo
negli anni Sessanta, costretto a fuggire
da un padre autoritario che l'ha sottoposto
per tutta l'infanzia a violente
sedute di logopedia nel tentativo di
farlo parlare. In parte autobiografico
- Leclair ha cresciuto una figlia sorda
- in parte di finzione, Malintesi è una
storia universale che racconta la difficoltà
di essere genitori e di sopravvivere
a quei pericolosi castelli di carta
che sono tutte le famiglie.
Lei confessa di aver aspettato tanto
prima di scrivere questo romanzo.
Perché?
«Quando ho scoperto che mia figlia
era sorda, la mia prima reazione è stata
di scrivere per salvarmi da quella
che all'epoca mi sembrava una tragedia.
Ma non ero pronto, e ho abbandonato,
dedicandomi ad altri progetti. Solo con il tempo ho capito la fortuna
che avevo avuto, tutto quello che mia
figlia mi ha insegnato sulla lingua e
sul verbo come forza di essere. Allora
ho ripreso la scrittura del romanzo ma
prima di pensare a una pubblicazione
ho aspettato di poter chiedere il permesso
a mia figlia, che all'epoca era
adolescente».
La parte autobiografica è minima,
c'è quasi una forma di pudore?
«Sono genitore di una ragazza sorda
ma non sono un sordo e non intendo
parlare in nome e per conto dei
sordi, cosa che purtroppo è stata fatta
troppo a lungo. Solo quando mia figlia
mi ha autorizzato ho deciso di andare
avanti su questo progetto. La storia di
Julien Laporte è un misto di tante storie
vere che ho sentito frequentando
l'International Visual Theater, che ha
valorizzato la lingua dei segni, contribuendo
al grande rinnovamento della
comunità sorda francese dopo quasi
un secolo di oppressione e isolamento
sociale».
È anche questa storia di violenza
sociale contro i sordi che ha voluto
ripercorrere?
«La storia comincia con il Congresso
internazionale di Milano del 1880,
quando fu deciso di bandire la lingua
dei segni dall'istruzione dei bambini
sordi, imponendo sistematicamente
l'oralismo. Per quasi un secolo, fino
agli anni Ottanta del Novecento, la
lingua dei segni è stata rimossa dalla
sfera sociale, confinata nello spazio
familiare o nelle associazioni dove i
sordi si riunivano quasi clandestinamente
nei fine settimana».
Dietro a questo folle piano per sradicare
la sordità c'era Alexander
Graham Bell, colui che brevettò il
primo telefono?
«Il prototipo del telefono di Bell è
nato dal tentativo di ottenere una potente
amplificazione a beneficio dei
sordi. In realtà l'inventore americano
non voleva davvero aiutare i sordi ma
"ripararli", come se fossero esseri difettosi,
proprio come nel mio romanzo
cerca di fare il padre di Julien Laporte.
Le ricerche di Bell furono decisive per
la svolta oscurantista del Congresso
di Milano, uno strano carrozzone nel
quale c'erano repubblicani convinti,
preti reazionari, uomini di progresso
e medici, tutti decisi a costringere i
sordi a parlare, senza lasciar loro altre
opzioni. Per una crudele ironia Bell ha
creato un apparecchio che per tutto il
Novecento ha contribuito a isolare ancora
di più i sordi. Oggi le cose sono un
po' cambiate perché con gli sms e le
videochiamate le comunicazioni sono
di nuovo inclusive».
Nonostante i progressi, ancora oggi
ci sono forti tensioni all'interno
della comunità dei sordi.
«Il movimento di liberazione cominciato
negli anni Ottanta ha rimesso al
centro i diritti dei sordi, con delle vere
conquiste sociali, compreso l'uso della
lingua dei segni che oggi viene insegnata
in alcune scuole e università. Ma
resta un rancore profondo, una diffidenza
istintiva rispetto ai medici e a
qualsiasi intervento esterno alla comunità.
Ancora oggi molti militanti si
oppongono non solo ai metodi oralisti
ma anche all'uso di impianti cocleari,
perché sospettano che sia un nuovo
modo per isolarli. C'è una cosa che molti
non sordi non riescono a capire».
Quale?
«Anche gli impianti cocleari di
avanguardia non fanno miracoli, sono
apparecchi efficaci in un dialogo a
due, talvolta a tre, ma gli effetti scompaiono
dentro a un gruppo. Con la lingua
dei segni i sordi si sentono liberi
e a loro agio. Mia figlia ha frequentato
classi di integrazione scolastica, ha
seguito in parte metodi oralisti, oggi
vuole lavorare nel mondo della moda,
ma non ha mai rinunciato a segnare
con i suoi amici sordi».
Lei ha scritto pagine bellissime a
proposito della lingua dei segni...
«Sono capace di segnare qualche
parola, esprimendo frasi elementari,
ma non sono mai riuscito ad andare
oltre perché la sintassi è complessa e
bisogna avere la capacità di far calare
la lingua dentro al proprio corpo. È
qualcosa che ci spinge a superare la
tendenza a vivere in un mondo sordo
all'intelligenza del cuore ».
Il filo rosso del romanzo è la difficoltà
della relazione tra genitori e
figli?
«Yves Laporte tenta di riparare
quello che considera un errore inammissibile
della lotteria genetica, vuole
rieducare il figlio sordo pensando
di fare il suo bene ma soprattutto perché
lui, eroe
della Resistenza,
imprenditore
di
successo, spera
così di guadagnarsi
nuova
rispettabilità
sociale. La
madre di Julien
invece sviluppa sensi di colpa e
resta ammutolita davanti alla violenza
imposta al figlio».
È questo uno dei malintesi a cui
allude il titolo?
«Quello che chiamiamo amore paterno
o materno spesso non è altro che
la ricerca di conferme alla propria
rappresentazione del mondo. Noi genitori
spesso occultiamo i figli per
quello che sono, vogliamo inserirli
dentro alle nostre proiezioni. Faremmo
meglio a incrociare le dita, sperare
che i figli riescano a vivere sotto un
cielo vuoto un po' meglio di noi, che ci
siamo liberati dalle catene delle superstizioni
religiose ma siamo ancora
chiusi in noi stessi. Il romanzo parla
di questa maledizione atavica che
pende sulle famiglie e non dipende
dalla sordità ma dalla nostra capacità
ad articolare la lingua del cuore, senza
pregiudizi».