Recensioni / Toccare la superficie

Estratto dal primo capitolo di Postcritica. Asignificanza, materia, affetti di Mariano Croce.

Il presente e la sua firma

La filosofia è certo una disciplina, eppure su di essa il confinamento entro limiti ben ordinati ha effetti decrementali: come per il cuore e le sue aritmie, il potenziale di azione perde la propria efficacia quale stimolo per le fibre, al punto che alcune di queste si comportano in maniera opposta e richiedono maggiore latenza. Ecco: la filosofia rallenta proprio quando si rinserra in un canone disciplinare e avverte il bisogno di un qualche riconoscimento come sapere su qualcosa. Non che canone e accreditamento siano per loro conto dei vizi: si tratta pur sempre di strumenti per la navigazione in un mondo che ripartisce i territori e fa classifiche. Il punto è piuttosto la relazione tra filosofia e pensiero, cioè una pratica materiale capace di dare un nuovo assetto a cose e idee. Quando recupera il suo carattere di pensiero, la filosofia acquista un incedere incrementale: registra gli spostamenti di due sistemi di valori l’uno rispetto all’altro e ne segna i margini di guadagno. In altre parole: come le idee e le cose si rapportano in modo differenziale, aprendo fessure per configurazioni nuove.
È una nuova configurazione che questo libro prende ad oggetto: la postcritica come una delle maniere del presente. Per “maniera” intendo qui l’opposto dell’essenza, il fatto cioè che nulla di ciò che fa le cose quel che sono ha un che di intrinseco. Le cose si dispongono in una serie, un ordito, un concatenamento, e così prendono una certa configurazione: è il modo in cui le cose si connettono le une alle altre che ne muta la forma e il significato. La maniera è la cifra delle connessioni e il modo in cui si esprimono. Il loro emergere, come dirò più avanti, e il modo in cui vengono implicandosi. Questo testo, sicché, sarà ispirato a un programmatico manierismo.
Ogni conformazione delle cose esprime un pensiero. E varrà la pena chiarire subito che la postcritica fa del pensiero una forma di adesione, o meglio, l’adesione a una forma, che si ottiene attraverso una riconfigurazione. Il pensiero non è riflessione, ripiegamento del pensiero su sé stesso, ma un taglio, un’incisione, come la firma di uno street artist su un muro di città: l’artista di strada non crea il muro, ma lo ricolloca in una rete di pratiche, discorsi e materiali, che lo rende la sua opera, mentre la firma non segna linee che si lasciano catturare dalla regola della proprietà intellettuale, ma crea un legame tra il luogo e chi lo abita che mobilita l’unica regola che l’arte non rinnega mai, ovvero la comunanza. Il “suo” della firma è una pratica comune di collocazione del muro in un filare d’esperienze e pratiche, che si tratti di arte oppure di tutto quanto tocca e toccherà quel muro.
Allora il compito di queste pagine sarà cogliere una delle firme che conferisce al presente questa configurazione – la postcritica – senza tuttavia mettere in dubbio che le firme sono moltissime, tante almeno quante/i sono le/gli street artists.

Il profondo e il superficiale

L’idea fissa di Paul Valéry si apre con una censura del pensiero profondo: «Cose mentali […] fatte per l’oblio». Quando il pensiero tortura l’essere umano, esso diventa «un altro, un parassita». Ma il punto è che si «approfondisce per non vedere». Un pensiero, o un’idea, continua Valéry, è una sorta di meccanismo operativo in costante mobilitazione che assembla e trasforma: in un mondo di pura transitività, l’idea prende in prestito «delle proprietà completamente nuove, completamente differenti». L’idea fissa è quella che ha più probabilità di ripresentarsi e di deformare «tutti gli altri avvenimenti» in «deviazioni, infrazioni». L’idea fissa comanda una strana passione per la profondità: «Alcuni credono di penetrare negli strati profondi della loro esistenza… In genere vi cercano fossili osceni». Ma l’accesso alle viscere è vietato: «Ciò che vi è di più profondo nell’uomo è la pelle […] Per quanto scaviamo […] siamo sempre ectoderma».
Un’idea fissa ha tormentato la filosofia e la teoria sociale del Novecento, quella secondo cui la realtà consisterebbe in un fittissimo reticolo di segni da interpretare, segni prodotti e imposti alle cose dall’essere umano, e che questi non abbia altro accesso alla realtà se non questa trama segnica. Per quanto più o meno evidente, il marchio della filosofia del Novecento è l’ossessione per il segno e il suo significato, quindi per quel che più avanti chiamerò “significazione” o “significanza”. Parte ampia della filosofia e della teoria sociale novecentesca, inoltre, ha finito con l’adottare quell’inclinazione teorica ed emotiva che va sotto il nome di “ermeneutica del sospetto”, di cui Marx, Nietzsche e Freud sono ritenuti i progenitori. Questa tendenza a interpretare la trama segnica non solo condivide l’idea che il mondo di cui facciamo esperienza non sia altro che la serie dei significati che l’essere umano impone alle cose, ma a ciò aggiunge per l’appunto una decisa inclinazione al sospetto: quei segni e significati non ci dicono mai il vero.
All’opposto: hanno un’incallita propensione all’inganno. In altre parole, è convinzione degli ermeneuti del sospetto che i significati disponibili all’esperienza umana nascondano una realtà più profonda, tacita, opaca, sede di meccanismi più pervasivi, che governano le azioni degli agenti sociali nella vita quotidiana e che hanno la capacità di eludere la conoscenza ordinaria. Solo un apparato di sapere preposto allo scoprimento e allo studio accorto di quei meccanismi è ritenuto in grado di portare alla luce la loro presa sulle coscienze e sulle azioni degli agenti nella vita di tutti i giorni. Così, l’ossessione per la significanza si coniuga a un’attitudine critica: compito della teoria è indagare i segni, unica realtà a noi accessibile, per decrittare le verità scomode che occultano.
Non posso né potrò soffermarmi sul tema, ché il taglio scelto in questo libro sacrifica i discorsi sulla metodologia dell’indagine filosofica. Sia qui sufficiente notare che la postcritica nasce proprio dalla presa d’atto di un’attrazione fatale per la profondità e i suoi effetti più nocivi, a dispetto delle buone intenzioni. Proprio perché quel reticolo di segni, che si ritiene unico accesso al mondo, è presentato come irto di inganni e vicoli ciechi, il sospetto incorpora l’imperativo di sospendere quella fiducia ingenua che la vita ordinaria ripone nella realtà per come essa appare e raccomanda di cercare un punto di vista capace di penetrare la scorza dura del reale o di innalzarsi sopra di essa – un punto di vista che persegue la metodica del sopra e del sotto al fine di demistificare le forze che operano “dietro le quinte”. La postcritica non ritiene questo assunto erroneo in sé, ma lo trova inconcludente e alle volte deleterio. Come scrive Eve Kosofsky Sedgwick in Paranoid Reading and Reparative Reading, uno dei testi fondativi della postcritica, il sospetto guarda solo al generale, ai grandi apparati nascosti, e affoga il singolare, le relazioni locali, contingenti, in una episteme che ritiene onnipervasiva. Ed è questa la linea che lega la postcritica all’osservazione della realtà minuta, del dettaglio, dell’interstizio, perché non vengano mai piegati alle esigenze delle spiegazioni generali della realtà e dei suoi meccanismi.
La linea che percorrerò in questo scritto è quella del superamento di un pensiero che è troppo preoccupato del profondo e del globale e che trascura la superficie e il locale. Per far questo, spiegherò innanzitutto la relazione che sussiste tra l’interesse per il profondo e la torsione moderna della filosofia con cui essa ha finito per interessarsi quasi esclusivamente delle modalità con cui l’essere umano conosce e fa esperienza – le cosiddette condizioni di possibilità del conoscere. Questa discussione preliminare mi consentirà di riscoprire l’intreccio che esiste tra parola e mondo e il gradiente affettivo che qualsiasi esperienza presuppone.

Asignificanza, materia, affetti: tre note distintive

Il linguaggio è stato a lungo il centro della riflessione filosofica, specie a partire dalla cosiddetta “svolta linguistica”, con cui all’inizio del Novecento la filosofia del linguaggio guadagna il posto di prima philosophia. Fatta eccezione per rarissimi casi, ancorché illustri, alla fine del diciannovesimo secolo la filosofia e le discipline affini smettono di interrogarsi su quel che costituisce la realtà e si concentrano sul modo in cui vi si ha accesso. La riflessione si sposta da ciò che costituisce il mondo a ciò che consente di conoscerlo – detto altrimenti, da ciò che circonda l’essere umano all’essere umano stesso e alle sue categorie epistemiche e tassonomiche.
In questa circostanza, il linguaggio prende a essere inteso come quell’architrave delle pratiche umane che spiega e rende possibile ogni altra pratica: la meta-pratica per eccellenza, da cui tutto è mediato e fuori dalla quale non si dà esperienza. Il linguista ed etnologo Edward Sapir scrive:

Noi dobbiamo accettare l’idea che la lingua sia un’eredità enormemente antica della specie umana […]. Io propendo a credere che la lingua precedette anche gli sviluppi più elementari della cultura materiale, e che anzi questi sviluppi, non furono veramente possibili fino a che lo strumento dell’espressione dotata di significato, cioè la lingua, non prese forma.

Il nodo non sta nell’innegabile importanza del linguaggio per la specie umana, quanto nel suo carattere di imprescindibilità per qualsiasi altra pratica, e in particolare quella fondamentale del conoscere. Il filtro, la via d’accesso, il canale che porta al mondo è il significato (e il suo sedimento materiale: la parola), grazie al quale la cosa ci si presenta come esperibile e dotata di senso. Non è certo questo il luogo per dare un’idea delle molteplici teorie del significato avanzate nel corso degli ultimi cento anni, né ciò risulterebbe utile al mio discorso. Quel che rileva è che non si dà mai un momento in cui si possa esperire una mela, un gatto, un albero o una sorella senza che siano date le parole corrispondenti. E la singola parola dice al contempo cosa fare con l’oggetto, come ci si deve porre dinanzi ad esso.
Il processo di significazione, o significanza, ovvero la produzione dei segni materiali che organizzano l’esperienza, è quindi la condizione essenziale dell’esperienza. A tal proposito, il semiologo Algirdas Julien Greimas scrive:

Ogni volta che ci si pone a riflettere sulla situazione dell’uomo, si resta ingenuamente stupiti nel rendersi conto che questi è letteralmente assalito da mattina a sera e dall’età prenatale alla morte dalle significazioni che lo sollecitano da ogni lato e sotto tutte le forme. Le pretese di certi movimenti letterari che vorrebbero fondare una estetica della non-significazione appaiono stranamente ingenue.

Greimas registra l’onnipresenza di un processo significatorio che non dispone né di ingresso né di uscita. Il significante è la condizione primigenia dell’esperienza umana.
In modo grossolano ma funzionale, la significanza può essere quindi definita come la serie di pratiche con cui si produce quel reticolo di segni che consente all’essere umano di esperire un oggetto cosicché esso abbia un significato stabile su un piano diacronico (ossia per il soggetto conoscente nel corso del tempo) e sincronico (ossia per gli altri soggetti). Perché io possa dire “sedia” in modo tale che mi venga passata una sedia quando dico “passami una sedia”, deve darsi un significato stabile, ossia una relazione sedimentata, pubblica e reiterabile tra il significante “sedia” e l’oggetto che esso significa. La dimensione di significanza, al contempo, ha un precipitato normativo: quando a una persona presento la mia compagna dicendo “questa è la mia compagna”, la cognizione mediante parola segna e delimita il ventaglio di azioni possibili tra la mia compagna e l’ascoltatore.
Può quindi avere un qualche senso quell’atteggiamento (colpevolmente ingenuo, come sottolinea Greimas) che persegue asignificanza e asignificatorietà? E cosa c’entra con la postcritica? Comincio qui col declinare la postcritica in modo inevitabilmente idiosincratico: una delle note distintive della postcritica è la fuoriuscita dal regime saturo della significazione. Poco affascinata dall’allure della significazione, la postcritica fa sua l’idea che «significanza e interpretosi sono le due malattie della terra e della pelle, cioè dell’uomo, la nevrosi di base». Si badi: non i significati né l’interpretazione, per loro conto attrezzi tutt’altro che marginali nell’armamentario della conoscenza umana, ma la loro elezione a perno ed epistilio del rapporto tra esseri umani e realtà circostante. Cercherò così di seguire quelle linee e quelle traiettorie che restituiscono il senso – o meglio il sensibile – di un linguaggio asignificatorio che traccia connessioni e crea legami tra le cose, anziché imporre loro un significato. Il significato e la parola che lo veicola, all’opposto, si fanno parte di un tessuto materico che contribuisce a comporre senza alcuna pretesa di dominio. Tutto questo non implica certo un addio al linguaggio, che non sarebbe né possibile né auspicabile, bensì la rottura con l’idea che la significazione costituisca l’unico accesso al mondo. Insomma, la messa in questione della supremazia linguistica dell’umano sulla realtà. Tra quante/i hanno contribuito a segnare un percorso di fuga dal significante, rientrano Clarice Lispector e Gilles Deleuze.
Nei romanzi di Lispector incede un mondo di vibrazioni e sensazioni aptiche, risonanze e onomatopee, segnali telegrafici e ritmi incalzanti. Restituisce alla parola il carattere presignificato del suono che emette appunto vibrazioni e che si lascia ascoltare come si ascolta un giradischi. La filosofia di Deleuze, così carica di richiami allo Spinoza più materico, apre costanti brecce nella dominanza del significante, balbetta il linguaggio e lo fende, lo piega a usi nonsignificanti. Lispector e Deleuze vantano una straordinaria capacità di fare un uso della lingua i cui effetti rompono il rapporto apparentemente inscindibile tra parola e cosa, e restituiscono la cosa al suo carattere materiale. È qui che emerge con più forza la venatura postcritica di queste/i e altre/i autrici/autori – e mi consente al contempo di darmi all’indecorosa attività di marcare i tratti tipici della postcritica –: l’emergere di una materia viva, che non rimane in attesa del significante per liberare i propri protocolli creativi. La lingua segreta delle cose, non ancora o non del tutto significate, mette la lingua in uno stato di variazione continua che ne surriscalda nuove capacità creative. L’esaltazione di un cromatismo operativo, che tocca la lingua negli interstizi, la tende e la fende perché vi passi quel che il significante lascia inerte. È così che la postcritica non oppone parola e cosa, né le pone in un qualche regime di supremazia e subordine. All’opposto, strappa la materia dai rivoli dei molteplici nonsignificati che la parola conserva sempre in seno.
Questo mi permette di evidenziare una seconda nota distintiva della postcritica, ovvero la destituzione delle diadi che hanno animato il pensiero novecentesco: natura vs. cultura, naturale vs. artificiale, umano vs. nonumano, animato vs. inanimato. Nel suo Manifesto cyborg Donna Haraway parla di «unità cyborg […] mostruose e illegittime», che sfidano la divisione ordinata del naturale e dell’artificiale e mostrano piuttosto come e quanto artificiale sia la distinzione stessa. Nel «piano d’immanenza» su cui si colloca la postcritica, l’artificiale attraversa il naturale secondo processi di produzione delle forme in cui gli attori in campo sono moltissimi, ed eccedono lo spettro limitato dell’umano. Nelle parole di Haraway, questa è una mina insolente e sediziosa, che fa implodere

forse fatalmente, la certezza di ciò che conta per natura sia fonte di intuizioni e promessa di innocenza. L’autorizzazione trascendente a interpretare è perduta, e con essa l’ontologia su cui si fonda l’epistemologia “occidentale”.

Il collasso delle bipartizioni scuote quindi un’intera epistemologia e l’ontologia che essa incorpora. Su questo mi diffonderò più avanti, sicché non occorre dire altro al momento. In chiusura di questa discussione preliminare, però, varrà la pena notare che la rimozione dei confini tra natura e cultura non ha come esito un antinaturalismo esasperato, ma segna uno spinoziano tracciato di variazione tra elementi che si combinano per dare luogo ad aggregati sempre differenti: aggregati di corpi dalla diversa natura, che utilizzano diverse forme di connessione, e che di volta in volta esprimono una conformazione diversa del mondo (si pensi ad esempio al modo in cui gli apparati tecnologici hanno fatto ingresso nella vita ordinaria e dato corso a forme di connessione che senza quegli apparati non sarebbero stati pensabili). E il richiamo a Spinoza in tale frangente non è un capriccio del gusto di chi scrive, ma un ritorno agli affetti – da cui la cosiddetta “svolta affettiva” – per il quale ogni atto di cognizione mobilita una relazione di affezione tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto. Spinoza utilizza “affetto” proprio per esaltare l’attività – in un senso deliberatamente opposto a passività – della vita psichica e corporea degli esseri umani (e non solo). Non si tratta di sensazioni, sentimenti, emozioni. C’è tutto questo, sì. Ma c’è molto altro. Si potrebbe parlare dell’affetto come di una collocazione che segna soglie di intensità: il soggetto che esperisce si colloca rispetto al suo oggetto d’esperienza in un certo modo che lo affetta con certi esiti o effetti. La relazione si dà quindi in termini di effetti di connessione. Ogni relazione è traducibile in ultima istanza in effetti di connessione. E su questo si tornerà nelle parti conclusive del libro.
Le possibili collocazioni affettive sono molte, e i loro effetti su chi si colloca altrettanti: nella postcritica risuona questo elemento di attività e di presa di posizione: allorché si osserva un oggetto – che si tratti di un libro, di una pianta, di un minerale, di un individuo, di un gruppo di individui, di una comunità –, si forma un’alchimia affettiva che elimina qualsiasi pretesa di distanza e di neutralità. Il canale connettivo, mediante cui si esperisce, è proprio l’affetto, nel senso degli effetti che vengono destati su chi osserva e che la/lo colloca in un certo modo rispetto all’oggetto. La profondità e il sospetto, di cui parlavo sopra, nonché la dominanza del linguaggio come unico accesso alla realtà, anestetizzano il contatto e introducono un elemento di distanza che recide i legami. Presenterò quindi la postcritica come un passaggio dalle mediazioni cognitive alle mediazioni connettive: la cognizione non è che collocazione in una rete di affetti. Per rendere conto di tutto questo, la postcritica si accompagna – va detto: non in ogni sua declinazione – a un nuovo lessico ontologico. Quello che io proporrò sarà teso a tracciare l’operatività di connettori, reagenti, tensori, torsori e vettori. La realtà, nella sua dimensione affettiva (cioè di collocazione dei corpi rispetto agli altri), può essere descritta attraverso la mappatura e la localizzazione di questi elementi. Questa sarà la postcritica nella mia personale declinazione.