Recensioni / Artist writings: ridefinire il concettuale

La raccolta degli scritti di Jeff Wall viene ripubblicata da Quodlibet in una nuova edizione riveduta e corretta (dopo la prima del 2013), con modifiche alla postfazione di Stefano Graziani e la sistemazione di alcuni errori redazionali nel testo. Composta dagli artist writings e dai saggi intorno al lavoro di altri artisti, testimonia la grande conoscenza teorica di Wall, dovuta anche alla lunga esperienza di docente.
Entrambe le tipologie di scritti ci permettono di mettere in luce aspetti della poetica e del progetto artistico complessivo di Wall, che a volte possono rimanere sottotraccia rispetto alla lettura in chiave postmoderna del suo lavoro: una lettura sicuramente centrata ma a volte riduttiva, quando presa troppo alla lettera. Il tratto che ne emerge è proprio il legame dialogico dei suoi lightboxes, in cui protagoniste sono la mise-en-scène e il tableaux vivant, con le questioni sollevate dalla stagione delle neoavanguardie e in particolare dall’arte concettuale. Un dialogo che si articola per affermazioni e contraddizioni, dove anche ciò che più sembra allontanarsi dalla poetica ‘riduttivista’ delle neoavanguardie conferma la grande consapevolezza di Wall per le istanze portate avanti da quei gruppi negli anni Sessanta e Settanta Sarebbe impossibile tentare qui di rendere conto esaurientemente delle molteplici strade teoriche che gli scritti di Wall imboccano. Più interessante è selezionare e sintetizzare alcune questioni che si possono correlare con la sua pratica artistica.
Partendo dal breve brano che dà il titolo alla raccolta, se ne deduce che il suo interesse per le situazioni allestite non deriva solo da un’ansia citazionista e finzionale, ma anche da una riflessione sul ruolo della gestualità. Perse le funzionalità teatrali barocche, il gesto diventa, nella società moderna e industriale, piccola azione biomeccanica che la fotografia, anch’essa meccanica, può cogliere come ‘resto’ dell’antica gestualità. In questo senso, i suoi tableaux possono essere letti come degli studi controllati intorno a questo fenomeno.
Anche il fiotto di latte ‘congelato’ che compare in Milk del 1984 diventa occasione di una riflessione sul ruolo del liquido in fotografia. Wall nota come la componente liquido-chimica sia fondamentale, nella fotografia tradizionale, accanto alla parte secca ottico-meccanica. Tale ‘arcaismo liquido’ scompare nella tecnologia digitale, espandendo il ruolo della parte secca e mettendo in disparte l’incalcolabile della parte liquida a favore della “natura proiettiva e balistica” (p. 12) di precisione del meccanismo ottico-meccanico, oggi potenziato dall’elettronica.
Tuttavia è nel saggio Segni di indifferenza che il tema dei rapporti fra fotografia e arte concettuale diventa centrale. Qui Wall mostra come quest’ultima abbia avuto un ruolo chiave nella definizione della fotografia come arte contemporanea, innescando in essa dinamiche simili a quelle avvenute nelle altre arti dagli anni Venti in poi: quei meccanismi di autocritica che portarono a “sradicare e radicalizzare il medium” (p. 15).
Naturalmente, la fotografia non ha potuto rinunciare alla raffigurazione. Ha cercato però di abbandonare i criteri logori della creazione d’immagini estetizzanti, per passare alla “condizione di essere una raffigurazione che costituisce un oggetto” (p. 16). Il rifiuto di un’estetica classicheggiante impone di conseguenza al concettualismo una certa contraddizione: l’obbligo di “essere nel contempo antiestetica ed esteticamente significativa” (p. 20).
Negli anni Sessanta, la fotografia sembra quindi perfetta per incarnare quell’ideale di ‘arte non-arte’ ricercato dalle neoavanguardie. Il suo essere fuori dalle logiche di mercato le dona un potenziale utopistico e la rende adatta all’imitazione neoavanguardista delle arti non autonome create dalle altre produzioni sociali (industriali, commerciali, giornalistiche, cinematografiche, accademiche). È il reportage, inteso nel senso più ampio, la pratica più imitata e sovvertita. Esso subisce una certa teatralizzazione e soggettivazione, da un lato tramite la documentazione fotografica di performancee gesti artistici (Richard Long, Bruce Nauman), dall’altro con lo svilupparsi di una sorta di parodico fotogiornalismo artistico che riprende la forma del servizio fotografico con testi e immagini (Dan Graham, Robert Smithson). Il caso di Homes for America (1966-1989), con fotografie e testi di Graham concepiti come articolo di rivista sull’ambiente suburbano ma poi presentati come opera autonoma, dimostra il dialogo serrato con la questione del reportage e della fotografia documentaria e costituisce proprio un esempio di quell’imitazione delle arti non autonome (in questo caso il formato foto-saggio).
Un altro aspetto posto in rilievo è la dilettantizzazione della fotografia: il riduzionismo dell’arte modernista e concettuale non può intaccare la figurazione fotografica a causa del suo ineliminabile inconscio tecnologico ottico-meccanico. Una certa ‘riduzione’ della fotografia può avvenire solo rinunciando alla perizia tecnica e all’amabilità pittorica, arrivando ad abbracciare quei “segni di indifferenza” che possono portare la fotografia a identificarsi alla non-arte. Questo problema si risolve, in molta fotografia concettuale, nell’imitazione dei dilettanti.
Uno degli esempi più puri è costituito dai libri di Ed Ruscha. Come nel caso di Twentysix Gasoline Stations (1963), banali fotografie di stazioni di servizio, “stupide, noiose, insignificanti” (p. 22): è il modo per la fotografia di aderire alla riduzione del concettuale, che avversa l’esperienza sensuale dell’opera d’arte. Quello che offre in cambio, non potendo rinunciare alla rappresentazione, è la presentazione mediata di un’esperienza, “un’esperienza dell’esperienza” (p. 43).
Alla luce di queste riflessioni, si può interpretare il lavoro di Wall come un tentativo di ‘superare conservando’ le posizioni teoriche delle neoavanguardie. Una serie di studi sui concetti del fotografico che riprendono sperimentalmente e consapevolmente i legami col pittorico e il cinematografico: sul piatto sono messi l’immersività della scala 1:1 e la retroilluminazione, quest’ultima sia come metalinguaggio che svela il processo di produzione dell’opera durante la sua fruizione, sia come espediente che dona un certo ‘letteralismo’ alla costruzione dell’immagine.
Sempre collegandole al valore concettuale del suo lavoro, possono essere lette anche le considerazioni sui palazzi di vetro e specchi riferite al lavoro Alteration to a Suburban House (1978) di Dan Graham, opera sui rapporti di potere esplicitati nelle scelte costruttive dell’urbanistica capitalista, ma che forse ha riverberato come soluzione visiva anche nella scelta del lightbox per la presentazione delle sue fotografie.
Perfino l’attenzione dedicata ai Today Paintings di On Kawara, monocromi ‘sporcati’ con la data di esecuzione, può essere messa in rapporto con la sua poetica. Wall ci ricorda come la data sia sempre importante per il quadro ma in particolare nella pittura di storia, che si riferisce sempre a un evento. Nell’opera di Kawara l’evento è sparito nella monocromia, dove invece il fotogiornalismo vuole sempre rendere visibili gli eventi. Non è un caso che i monocromi siano affiancati da pagine di giornali.
Possiamo fare, dunque, un raffronto fra i Today Paintings e la fotografia di Wall Dead Troops Talk (a vision after an ambush of a Red Army Patrol, near Moqor, Afghanistan, Winter 1986) del 1992. In essa allestisce in studio, come un pittore di storia, un evento realmente accaduto di cui non si hanno immagini fotografiche. Potrebbe apparire solo una provocazione postmoderna, invece le considerazioni sugli esperimenti concettuali di Kawara la riconfigurano come una nuova riflessione teorica sui legami fra evento e fotogiornalismo, sebbene filtrata dal vocabolario proprio del rimescolamento dei linguaggi avvenuto dagli anni Ottanta in poi.
In conclusione, la raccolta, pur avendo piena autonomia di contenuti teorici di per sé interessanti, si rivela una preziosa traccia per ripercorrere il cammino artistico di Wall superando alcuni cliché critici con i quali è stato spesso analizzato.