Recensioni / Sempre nella tempesta: Peter Handke

Uno degli ultimi testi teatrali dell’autore carinziano, forse il suo capolavoro drammaturgico, è Ancora tempesta (Quodlibet, 2015). Qui la celebre didascalia del terzo atto di Re Lear, “still storm”, assume una valenza universale, come il vento della storia che investe con la sua impetuosa violenza la tranquilla valle del Jaunfeld sul confine sloveno. Ma, a ben guardare, “still storm” si presta benissimo anche come motto dell’intero percorso poetico ed esistenziale di Peter Handke, della sua inquieta, instancabile creatività, della sua indole provocatoria, delle sue rivoluzionarie innovazioni artistiche e delle sue prese di posizione capaci di suscitare le più violente reazioni. Dall’attacco del ventitreenne contro l’establishment letterario e contro la diffusa “impotenza descrittiva” del neorealismo, durante la riunione del Gruppo ’47 a Princeton nel 1966, fino alle accese discussioni sull’ex- Jugoslavia degli anni novanta e oltre, osserviamo che intorno a Peter Handke c’è quasi sempre tempesta. E le reazioni al conferimento del Premio Nobel non sono altro che la conferma di questa regola. Eppure, considerando con maggiore distacco storico-critico il lungo percorso di questo autore, non possiamo che ammirare la coerenza con cui ha creato e continua a creare, a dispetto di tanti detrattori, la sua vasta e personalissima opera narrativa, saggistica, diaristica, poetica, cinematografica e teatrale. Con i primi testi degli anni sessanta Handke si era fatto conoscere come esponente di punta di una avanguardia sperimentalista che, attraverso la critica e l’estraniamento delle strutture linguistiche stereotipate, scardinava le abitudini percettive e ideologiche dei suoi lettori e spettatori. In modo particolare con Insulti al pubblico (1966) il giovanissimo autore si era conquistato una notorietà come drammaturgo della provocazione nell’ambito della controcultura sessantottina, a livello internazionale. Rileggendo oggi quel testo, così come Kaspar del 1967 e altri “pezzi parlati” (Sprechstücke), riconosciamo la loro raffinata e sapiente fattura, la sicurezza nelle scelte lessicali e nella strutturazione ritmica, nonché l’indubbia sostanza intellettuale. Emerge, così, molto presto uno stile personale, che non si limita solo a denunciare l’alienazione linguistica diffusa, ma che vi contrappone un linguaggio assai poetico, sensibile, in cui ogni parola corrisponde a una precisa esperienza, a volte anche minima, ma autentica e vissuta. Fra i numerosi romanzi della fase giovanile – I calabroni (1966), L’ambulante (1967), Prima del calcio di rigore (1970), Breve lettera del lungo addio (1972) – sarà però il libro più impegnativo e di più ardua scrittura a segnare una importante svolta nella produzione di Peter Handke: con Infelicità senza desideri (1972) l’autore, ora trentenne, affronta il suicidio di sua madre. La necessità di narrare le privazioni e sofferenze che avevano spinto la persona a lui più vicina al gesto estremo costringe l’autore a esprimersi, seppure con grande cautela e con il ripetuto ricorso alla riflessione metaletteraria, nella lingua comune di cui, fino a quel momento, diffidava. Inizia da qui un processo di recupero delle forme tradizionali che, alla fine del decennio si presenterà come un Lento ritorno a casa (1979). È questo il titolo di una tetralogia che comprende anche un bellissimo manifesto di estetica dal titolo Die Lehre der Sainte-Victoire (tradotto Nei colori del giorno) del 1980. Qui Handke segue le tracce di Cézanne, affidandosi alla “scuola dello sguardo” di questo maestro dell’umanità. Contemporaneamente riscopre per sé la scrittura di Adalbert Stifter e altri modelli, che precedentemente sembravano lontani dal suo mondo poetico. Considerando la vasta produzione successiva, in modo particolare i Saggi (Versuche) in cui l’autore, ormai maturo, sviluppa la sua intensa arte dell’osservazione e della contemplazione, Nei colori del giorno si conferma un libro chiave per comprendere la scrittura di Peter Handke. Ma per completare il quadro, dobbiamo tornare a Infelicità senza desideri, dove ha inizio uno dei filoni tematici fondamentali della sua produzione. La madre dell’autore apparteneva alla minoranza slovena della Carinzia e aveva di qua e di là dal confine jugoslavo diversi parenti, dai quali il giovane Handke era attratto e che entreranno a far parte del suo mondo poetico, a volte anche in una dimensione fantasiosa, onirica o mitizzata. Con il romanzo La ripetizione del 1986, che narra il viaggio di un giovane sloveno carinziano alla ricerca del fratello smarrito in Jugoslavia, l’autore prosegue nella sua personale elaborazione del lato slavo, materno della propria identità, che anni più tardi ispirerà anche la già citata pièce Ancora tempesta del 2010. Qui Handke rievoca, attraverso un’autentica “costellazione familiare”, la tragica epopea della lotta dei partigiani sloveni contro l’occupazione nazista della Carinzia. Ciò che l’autore non riuscirà ad accettare, contrapponendosi a gran parte dell’intellighenzia occidentale, è la disintegrazione della Jugoslavia e l’attribuzione di colpa unilaterale, per la terribile guerra che ne conseguì, , al popolo serbo. La sua empatia con i serbi stigmatizzati si esprimerà in vari testi poetici, ma lo spingerà anche a prese di posizione prettamente politiche, difficilmente accettabili, come la sua orazione funebre per Milošević, che appare più come un gesto di sfida che non come il risultato di una valutazione equilibrata. Peter Handke ha pagato per questa sua ostinazione con anni di isolamento e ostilità. L’accademia di Svezia, dimostrando coraggio, ha deciso di interrompere tale ostracismo e di premiare l’autore per il suo luminoso contributo alla letteratura universale.