Recensioni / Josef K. ai tempi del fascio

Non è esistita, se non per trascurabili eccezioni, una letteratura che fosse la diretta espressione del fascismo; ma ha invece prosperato durante il regime, fatte salve stavolta grandi eccezioni, una letteratura della reticenza e dell'evasione dallo stato di cose presenti: tale è il segno medio dell'ermetismo, un inframondo silenzioso e arroccato, e tale è la cifra della cosiddetta prosa d'arte, un esercizio di stile (si pensi ai celeberrimi Pesci rossi di Emilio Cecchi) che non è ancora prosa e non è più poesia ma una ambigua decorazione e un sistematico occultamento della realtà. In anni di sostanziale autarchia, un medesimo tratto segna anche la ricezione degli autori stranieri sospettabili di sovversione o comunque inutilizzabili dalla propaganda.
E il caso di Franz Kafka di cui ora viene riproposto Il processo nella storica versione di Alberto Spaini (Quodlibet, con un saggio di Michele Sisto, nota alla traduzione di Daria Biagi). Spaini era un ebreo triestino reduce da una giovinezza turbolenta (trasfigurata in Un anno di scuola, notevole racconto di Giani Stuparich), poi allievo di Giuseppe Antonio Borgese, genero di Croce e antifascista in pectore, infine scrittore e traduttore non soltanto di Goethe e Thomas Mann ma anche di un romanzo decisamente rivoluzionario quale Berlin Alexanderplatz di Döblin. Ristampata qualcosa come quindici volte fino al 1969, la versione di Spaini, agli occhi di un doppiatore successivo, nientemeno Primo Levi, è benemerita pure se tende a rendere liscio quanto era ruvido e comprensibile l'incomprensibile perché, dirà Spaini in una lettera, solo all'apparenza lo stile di Kafka è «semplice e piano».
All'epoca della pubblicazione, Kafka è noto solo a una cerchia ristrettissima di intenditori. Il Processo esce a Torino nel 1933, da Frassinelli, pressoché in contemporanea e nella stessa collana di Moby Dick di Melville e di Dedalus di Joyce,tradotti entrambi da un ventenne Cesare Pavese che assieme a Leone Ginzburg è consulente del direttore di collana, Franco Antoni celli (1902-1974), una limpida figura di scrittore-editore- intellettuale antifascista, di ispirazione gobettiana, attivo in Giustizia e Libertà (come ben testimonia il suo volume postumo, purtroppo introvabile, La pratica della libertà, presentato da Corrado Stajano per Einaudi nel '76). Ma in che termini può essere letto nell'Italia del fascio littorio un simile romanzo del '14-'15, lasciato incompiuto da Kafka ma approntato per la stampa postuma dall'amico Max Brod dieci anni dopo? Come viene vista la vicenda del trentenne Josef K., modesto funzionario processato per ignoti motivi e condannato da un potere incombente, perseguitato per un anno e infine liquidato da neri sicari senza spiegazioni in una lurida brughiera?
E la domanda che si pone Michele Sisto nel lucido, informatissimo saggio allegato alla nuova edizione Quodlibet, con il titolo Cose dell'altro mondo. Leggere e tradurre Kafka nell'Italia del 1933, che è il vero motivo di interesse di questa riproposta. La conclusione non potrebbe essere più netta: nella ricezione di ancora pochissimi lettori, e per lo più addetti ai lavori, predomina l'immagine di uno scrittore «stoico che di fronte al dilagare di una modernità alienante, impiega tutte le sue energie nel fortificare la cittadella del proprio spirito attraverso la scrittura». E, questo, un Kafka ermetico e spiritualista, un'anima religiosa cui ripugna la realtà materiale delle cose e di esseri umani che esalano e svaniscono dal mondo reale come fossero espulsi per automatismo da una angosciata profilassi e per sempre risospinti dentro un loro universo di tenebra e di gelo. Insomma è un Kafka del tutto astratto e intransitivo, diafano e bianco, come potevano leggerlo allora sulla rivista cattolica «Frontespizio» Carlo Bo e Rodolfo Paoli, - ottimo traduttore per Vallecchi, nel '34, della Metamorfosi - oppure su «Solarla», laica e blasée, il poliglotta Renato Poggioli, che ne faceva un replicante piccolo-borghese di Dostoevskij. Qualcuno intende subito che Il processo ha invece molto da spartire con il mondo reale, in terza dimensione, che quelle pagine sono redatte da chi si sente suddito e anzi braccato dalla nascente società di massa, che insomma esse sono le terribili allegorie di forze anonime e malvagie, crittografie del solo incubo evocabile al presente, un mondo ormai totalitario. Qualcuno fra i lettori italiani intende ma, vigente sotto il fascio la doppia verità dell'arte "nicodemica", tace in pubblico e vocifera in privato: come nel caso di due campioni della prosa d'arte, Mario Praz e l'ineffabile Emilio Cecchi, i quali presagiscono il capolavoro, hanno espressioni di autentica ammirazione, ma si limitano a dirsele in uno scambio epistolare del luglio '35: Praz osserva che per vedere il mondo evocato dallo scrittore basta andare all'anagrafe, in questura o in un qualunque ministero e cioè nei luoghi eminenti del regime fascista.
Ma Kafka camminerà per così dire sulla testa ancora molto a lungo, ben oltre il secondo dopoguerra; e però di un Kafka da rimettere in piedi, da riportare nella storia e dentro dentro l'alveo di una cultura cosmopolita, ibridata dal nativo ebraismo, già parlano su «Politecnico» Elio Vittorini e Franco Fortini, prima che arrivino anche in Italia le grandi letture di Hannah Arendt e Gilles Deleuze, gli apporti della cultura accademica (da noi su tutti Giuliano Baioni, Kafka: romanzo e parabola, Feltrinelli 1962) e due nuovi doppiaggi del Processo, l'uno di Giorgio Zampa, germanista amico di Montale, l' altro di Primo Levi, che nel 1983 chiude il cerchio interpretativo richiamando una realtà a lui fin troppo nota: «un tribunale umano e non divino fatto di uomini e dagli uomini in cui Josef, col coltello già piantato nel cuore, prova vergogna di essere un uomo». All'inizio dell'altro secolo, qualcuno aveva infatti affermato che l'incubo non è altro se non una realtà da cui non si possono vedere vie di uscita.