Recensioni / A che ora si mangia? Come sono cambiati gli orari dei pasti, parola di Alessandro Barbero

Ci facciamo caso raramente – a volte capita che su di un invito chic il pranzo sia annunciato per le 21:00, con la raccomandazione di presentarsi in abito scuro, oppure può succedere che qualche tenutario ci inviti per colazione (ma alle 12:30) – eppure gli orari e i nomi dei pasti sono stati oggetto nei secoli di un’evoluzione sorprendente, un vero e proprio tira e molla esercitato dalle classi più alte per differenziarsi, che ha finito per trasformare col tempo il sistema dei pasti in tutta Europa, modificandone i nomi (le spie che ci consentono di avvertire gli indizi degli avvenuti slittamenti sono infatti tutte linguistiche). Per scoprire come le abitudini legate agli orari del desinare siano mutate lungo il tempo, è uscito da poco per Quodlibet un interessante libretto: A che ora si mangia?, dello storico Alessandro Barbero, Premio Strega nel 1996 con Bella vita e guerre altrui di Mr Pyle, gentiluomo, nonché star dei podcast.
Il testo ci spiega come “gli orari dei pasti sono una costruzione culturale e cambiano non solo da un paese all’altro, ma da una classe sociale all’altra e anche da un’epoca all’altra”.

Quando il pranzo è diventato la cena
Il periodo preso in esame da Barbero va dalla fine del Settecento alla Prima Guerra Mondiale, una finestra di tempo in cui – se guardassimo agli orari di fine Settecento e poi subito dopo a quelli di metà Novecento – potremmo illuderci che non sia accaduto nulla, mentre invece è cambiato tutto, così tanto da far slittare il pranzo fino a ora di cena. La moda, partita in Inghilterra, attribuiva infatti al “pranzar tardi” una forte valenza di status symbol. Per capire cosa sia accaduto dobbiamo tenere presente per prima cosa che il nome con cui chiamiamo i pasti può essere legato oltre che al suo orario (come avviene al giorno d’oggi), alla sua consistenza (come avveniva, in prevalenza, un tempo); e anche che l’orario in cui si decideva di servirli poteva caricarsi di implicazioni sociali. Nel XVIII e XIX secolo, ci dice Barbero, termini come dîner, dinner e pranzo portavano con sé la fortissima connotazione di “pasto principale della giornata”.
Lo slittamento cominciò probabilmente in Inghilterra, dove la buona società era da prima avvezza a servire il dinner (allora il pranzo) più tardi di quanto non si facesse nel resto d’Europa. In generale “l’orario settecentesco prevedeva sul continente una colazione al mattino appena svegli, che nella lingua internazionale delle classi elevate era chiamata déjeuner, un pranzo molto abbondante, o dîner, fra mezzogiorno e le due; una cena più leggera (souper) in serata”. Le tracce di questi slittamenti progressivi e sempre più snob – che portarono a servire il pranzo prima alle 14, poi alle 15, alle 16, e via su fino alle 18 o alle 19 – sono rimaste visibili più in francese e in inglese che in italiano. “In francese, oggi – almeno nel francese ufficiale, che poi è quello di Parigi –, il pasto di mezzogiorno è chiamato déjeuner, mentre dîner è riservato al pasto della sera”.

In principio fu il brunch, poi la colazione
Gli spostamenti d’orario causarono lungo il tempo altrettanti assestamenti sui pasti serviti prima e dopo, a un certo punto era infatti impossibile arrivare a pranzare alle 18 senza aver mangiato qualcosa prima, ed è così che per esempio è stato introdotto il déjeuner à la fourchette, ovvero una abbondante colazione cucinata, da consumarsi a metà mattinata (tutt’oggi in Francia, la colazione è chiamata petit-déjeuner). Usanza che ancora distingue le abitudini degli anglofoni da quelle dei paesi latini (benché la colazione in questione col tempo sia stata arretrata fino all’ora del risveglio).
Non è stata la sola conseguenza tuttavia, a fine Settecento infatti era prevista dopo il pranzo (che allora avveniva più o meno a metà giornata), una cena (più leggera, perché il pranzo poteva arrivare a contare in menu fino a tre o quattro portate di carne), cena che era chiamata souper e che con l’avanzare inesorabile del dinner nel corso del pomeriggio inizialmente veniva fissata sempre più tardi, per poi sparire dagli usi e dunque anche dalle consuetudini linguistiche. Quando infine il pranzo raggiunse l’ora di cena fu necessario introdurre un altro pasto a metà giornata, ed è in quest’occasione che nacque il lunch, prima nient’altro che un generico “spuntino”, non legato ad alcun orario particolare.
Al giorno d’oggi l’abbondanza del pasto non ha più importanza per i parlanti, noi ancoriamo questi nomi agli orari, ormai del resto indistinti tra le classi sociali (e al netto di qualche oscillazione anche tra i paesi). Tuttavia, e il bello di questo piccolo libro è proprio andare a caccia delle gustose testimonianze letterarie ed epistolari a riguardo, senza contare che anche al giorno d’oggi resta qualche spia linguistica di tutti questi smottamenti mangerecci. “Per lo Zingarelli – ci informa Barbero – colazione è sia «Pasto leggero del mattino» sia «Pasto del mezzogiorno, secondo pasto della giornata», e in questa accezione ha come sinonimo pranzo e seconda colazione; è dunque individuato sempre con riferimento all’orario; ma pranzo è definito invece, senza fare alcun cenno agli orari, come «pasto principale del giorno». Colpisce che il linguista, per timore di apparire ordinario, non abbia osato dire che nell’uso corrente del 99% degli italiani pranzo è il pasto di mezzogiorno, principale o no”.

Il risultato è che oggi agli snob – non potendo più giocare con gli orari del pranzo – non resti che farlo con le scelte linguistiche, con questo ultimo esempio tratto dallo storico da un programma radiofonico di Arbasino chiudiamo questa breve digressione oraria:

… in un vecchio e memorabile programma radiofonico, Alberto Arbasino fingeva di intervistare Ludwig II, il folle re di Baviera. Il re raccontava degli spettacoli a mezzanotte sul lago di Linderhof, e subito Arbasino s’informava: “Pranzava prima o dopo, Maestà?”. Il re era felicissimo della domanda: “Ah, meno male, meno male, amico mio, che dice “pranzava” e non “cenava”, come dicono sempre quegli ordinari… in Italia…”.

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