Recensioni / La nascita del modernismo italiano di Mimmo Cangiano

Incardinato su cinque robusti capitoli-pilastro a sostenerne la mole, il “mostro”, come l’autore chiama il volume dedicandolo alla moglie Laura, si inserisce nell’alveo degli studi volti a identificare un modernismo italiano, inquadrandolo nel più vasto fenomeno internazionale. Consapevole della controversa ricezione del termine nel nostro paese e della sua diversa fortuna, Mimmo Cangiano ne traccia, nell’Introduzio-ne, una breve storia.
Italianista formatosi fra Bologna e Firenze, l’autore, ora in forze alla Hebrew Univer-sity di Gerusalemme, ha proseguito i suoi studi negli Stati Uniti, aprendosi alla rifles-sione sulle tematiche che agitano il primo ventennio del secolo, delle quali evidenzia il procedere per estremi, nella ricerca di una spesso impossibile conciliazione o di una sempre ardua terza via. Un andamento per coppie oppositive che informa da ultimo la macrostruttura del saggio stesso, il quale pone a confronto alcune delle personalità più significative di quegli anni, di necessità ruotanti intorno a «La Voce», anche se non unicamente pertinenti al polo fiorentino.
L’antefatto, dopo un cenno ai timori post-risorgimentali espressi da De Sanctis nella celebre prolusione La scienza e la vita del 1872 (Le paure di De Sanctis il titolo del paragrafo), è rintracciato nell’Umorismo, attraverso la cui lente Cangiano rilegge il romanzo che «ha sempre messo in crisi la critica pirandelliana, fin da Emilio Cecchi, che lo giudicò prodotto di un attardato naturalismo» (p. 47), ovvero I vecchi e i giovani. Qui, sostiene Cangiano, Pirandello va a rappresentare proprio sul terreno della storia la svalutazione dei valori collettivi che investe sia il Risorgimento dei “vecchi” che il post-Risorgimento dei “giovani”, culminante nella figura di Roberto Auriti e nel suo «benjaminiano senso di acedia che si traduce in resa» (p. 59). Ma è fuor di dubbio che, scrive dando inizio al secondo capitolo del lavoro, un «discorso sullo sviluppo del modernismo italiano, in connessione con quello europeo, va cominciato da Papini» (p. 69), sia per il suo ruolo di protagonista della scena culturale dell’epoca che per aver pienamente incarnato le contraddizioni dell’Italia giolittiana. È altresì ugualmente certo che vada anche continuato (ma meglio diremmo proseguito in parallelo, almeno fino a un certo punto della parabola) con Prezzolini, colui che è «non solo figura decisiva del Novecento intellettuale italiano, ma vero iniziatore e chiarificatore, in Italia, di quel clima culturale che va sotto il nome di modernismo» (p. 119). È dunque a questi due protagonisti del dibattito culturale del nostro primo Novecento, entrambi in necessaria colluttazione con il pensiero di Croce, colti nella componente più marcatamente politica e operativa del loro pensiero (Modernismo e nazionalismo è intitolato il capitolo) che sono dedicate le pagine in cui si ricostruiscono gli acrobatici passaggi del primo e si ripercorre la parabola del secondo. In particolare si sottolinea il valore dell’intuizione prezzoliniana del nesso fra le filosofie relativiste di primo Novecento e la perdita di valore del più potente strumento al servizio della ragione, ovvero il linguaggio, testimoniata dal suo Il linguaggio come causa d’errore (1904). Ovvero un’interpretazione in chiave italiana della Sprachkritik, «l’idea, vale a dire, secondo cui il linguaggio smette a un certo punto di essere strumento neutro per la significazione e la comunicazione, e diventa, invece, una insormontabile barriera che separa l’essere umano dalla realtà della vita» (p. 136). Si tratta, come si sa, di uno snodo fondamentale che, già visto da Nietzsche e intuito da Hofmannsthal nella Lettera di Lord Chandos, trapassa da parte a parte l’intera letteratura dell’epoca, per trovare negli studi di Wittengstein e del Circolo di Vienna compiuta elaborazione teorica. Intanto, però, il primo Prezzolini si avvicina all’idealismo crociano e con il 1908, dopo aver abbandonato tutti gli pseudonimi, approda alla fondazione della «Voce». L’impegno del direttore nel tenere insieme le tante anime della rivista nel comune intento di un’azione pedagogica dell’intellettuale volta all’educazione morale del cittadino, è ripercorso dallo studioso attraverso gli articoli, i saggi, i carteggi, in linea con l’assunto di fondo del lavoro, oltre lo scontro ideologico costituito dalla guerra di Libia e dalla Grande Guerra, fino a quell’astensione disincantata che lo vedrà autoesiliarsi a Parigi (poi a New York) e rispecchiare le proprie amarezze nel lavoro monografico su Machiavelli e Guicciardini.
Decisamente oppositivo il binomio Soffici-Palazzeschi, analizzato nel capitolo successivo (dal titolo Il punto di vista della vita), le cui pagine delineano il percorso del pittore di Poggio a Caiano, di cui si ricordano il fondamentale ruolo di raccordo fra la cultura italiana e l’arte parigina, la ruralità becera e aggressiva del Lemmonio Boreo, l’intervento nel conflitto «come abbattimento di una presunta egemonia culturale teutonica» (p. 259). Così Cangiano ricostruisce i passaggi dell’artista nei primi mesi del conflitto: «Soffici prova infatti inizialmente a chiamare i fanti al gioco della guerra secondo le modalità moderniste […]. Prova a partecipare alla prospettiva simbolistafuturista delle analogie (i fumi degli aeroplani come ghirlande, il rumore delle pallottole come baci schioccati), ma è ben presto costretto ad abbandonare tale strategia d’azione per darsi a ciò che passa ad interpretare come destino comune di una razza di cui anche l’intellettuale – seppur dalla sua posizione di prestigio – è parte» (p. 262). Di respiro più squisitamente letterario i cinque paragrafi dedicati ad Aldo Palazzeschi, nei quali lo studioso rende omaggio alla sua personale saison fiorentina (del 2011 il suo saggio L’Uno e il molteplice nel giovane Palazzeschi) e, con precisi riferimenti testuali, segue il delinearsi dell’originalissima posizione dell’autore in netta contrapposizione con la magniloquenza di Papini o la violenza di Soffici. Dall’universo cristallizzato di I cavalli bianchi, dove la cantilena del ritmo ternario e la ripetizione ossessiva determinano, per Cangiano, una «sclerosi narrativa» (p. 273) che si addensa nella coppia dentro/ fuori (si vedano le letture di La vasca delle anguille e Torre burla), si passa a Lanterna, che vede il rafforzarsi dell’elemento narrativo e l’apertura al grottesco, alla contaminazione con l’esterno e al polisenso di matrice umoristica di cui è emblematica la vicenda di frate Puccio. Ed è ancora su un presupposto nietzschiano, ricorda lo studioso citando un passo da La gaia scienza, che Palazzeschi si appresta a farsi saltimbanco, attraverso il romanzo: riflessi, «un cammino autoconoscitivo al cui termine dovrebbe trovarsi, secondo le speranze del protagonista, l’autocoscienza di sé» (p. 282). Si tratta tuttavia, sostiene Cangiano, di un romanzo di formazione assolutamente sui generis, un cammino speculare e a ritroso, in cui le voci molteplici e dissonanti della seconda parte «scherniscono a posteriori (dichiarandola arbitraria) l’intera quête raccontata nella parte epistolare dell’opera» (pp. 287-288) e, liberando il protagonista dall’obbligo dell’autenticità, aprono alla leggerezza e in ultimo all’allegria. Su questa strada, il fugace incontro di Palazzeschi con il Futurismo di Marinetti si pone a sua volta sotto il segno di un’ambiguità destinata a far esplodere sia le contraddizioni del movimento che quelle del poeta e del fare letterario stesso, approdando all’aereo fraintendimento di Perelà. Il percorso si completa quindi con l’esame degli scritti apparsi su «Lacerba», chvanno a costituire «l’intelaiatura teorica della poetica palazzeschiana» (p. 312) vissuta costantemente sul filo funambolico della ri-definizione, del ri-lancio, in ultimo dell’anti o contro-manifesto. Quindi il coraggioso approdo a posizioni pacifiste, il rigetto sia della guerra che dei propositi avanguardistici nei Due imperi ... mancati, «l’elogio della vita come flusso inarrestabile» che si tinge «dell’elemento creaturale dei soldati spediti al massacro» (p. 327): della sbornia interventista si sa come il Saltimbanco sia stato uno dei pochi a saper vedere, puntando già nel 1920 il dito contro le spacconate dannunziane, le oscure conseguenze.
Affrontando il nodo del “moralismo vociano”, con lo sguardo volto al fenomeno complessivo del modernismo religioso, Cangiano affianca la coppia Boine-Jahier e, nel capitolo intitolato Colorata durezza dell’essere, evidenzia la natura strutturale dell’oscillazione del primo fra pulsioni anarchiche e ossequio alla regola, sempre in un’ottica di sofferta e problematica spiritualità. Ora il polo dell’ordine trova espressione, ancora una volta, nel saldo legame con la terra degli avi e una struttura familiare arcaica, contadina e preindustriale, ora (e siamo al caso dei celebri Discorsi militari) nell’«esercito come travatura della tradizione» (p. 365) non senza pericolose aderenze con il pensiero razzista di Gobineau. Dall’altro lato del pendolo il relativismo si insinua nella prosa narrativa, dalla novella L’agonia al romanzo Il peccato, fino a farsi scontro con i contemporanei nei contributi per la «Riviera ligure» poi confluiti in Plausi e botte per approdare, infine, alla scelta del frammento (In frantumi si intitola questo ultimo paragrafo dedicato allo scrittore ligure) come rappresentazione stessa della contraddizione. Ma di certo non si tratta, precisa Cangiano, del frammento impressionistico alla Soffici che resta, qui nel confronto con Rebora, l’aggregante polemico di questa generazione, come si vede anche nelle pagine dedicate al dissidio scoppiato nel 1912 fra il pittore e Jahier. Torna di necessità anche nei paragrafi su quest’ultimo il mito dell’integrità della campagna contro l’alienazione cittadina che tanta parte ha nel dibattito dell’epoca, delineato sul modello autobiografico delle comunità valdesi versus il mondo del lavoro amministrativo che, nei contributi sulla parcellizzazione della burocrazia apparsi su «La Voce» nel 1911, precedono le atmosfere che saranno poi evocate nelle Resultanze in merito alla vita e al carattere di Gino Bianchi. Alle soglie del conflitto e animato dalle letture proudhoniane, l’ispettore delle Ferrovie dello Stato Piero Jahier (una condizione impiegatizia che lo accomuna a tanti scrittori di primo Novecento, da Svevo a Tozzi) si schiera infine per un interventismo che vede nella guerra l’occasione per l’abbattimento del capitalismo di stampo germanico e il superamento della visione tayloristica dell’operaio, divenuto ora fante e imbevutosi in trincea delle istanze contadine: in questo senso Con me e con gli alpini, osserva lo studioso, «riveste il carattere di alternativa al Gino Bianchi» (p. 426). Nell’ultimo paragrafo, si seguono le vicende di Jahier al ritorno dal fronte, rendendo conto dell’attività pubblicistica nell’immediato dopoguerra, della condizione di sorvegliato dell’Ovra (Papini ne denuncia la presenza a Firenze), dell’adesione al Partito d’Azione fino alle Contromemorie vociane del 1954, con cui si era aperta la sezione, e all’estreme riflessioni di Non è stato un fallimento, ormai nel 1961.
Con la coppia Slataper–Michestaedter si approda infine nel cuore della Mitteleuropa, attraversando il complesso scacchiere del confine orientale, dove Trieste svolge il ruolo di «ponte fra Vienna e Firenze » (p. 459) in un rapporto di scambio in cui l’idea di intellettuale modellata sullo stampo prezzoliniano si innesta su un terreno pronto ad accogliere la riflessione fra etica e lavoro (Etica e consenso il titolo di quest’ultimo capitolo). Per Slataper saranno fondamentali, lasciata Firenze e «La Voce», il soggiorno ad Amburgo e il lavoro alla sua tesi di laurea su Ibsen, fino a Il mio Carso e all’interventismo che lo porta a identificare nella guerra il proprio imperativo morale. Per l’appartato Michelstaedter, d’altro canto, lasciare la nativa Gorizia per frequentare l’Istituto di Studi Superiori nel capoluogo toscano rappresenta quello «scontro generazionale che Kafka renderà emblematico, uno scontro che in quanto apre all’individualismo della coscienza moderna, contiene in nuce, ben più che un conflitto psicologico, un’intera epoca di transizione» (p. 510). Qui, lavorando a La persuasione e la rettorica, elabora la teoria della malinconia e una riflessione sul linguaggio che, secondo Cangiano, solo in parte può considerarsi un episodio della Sprachkritik viennese cui più volte si è accennato, in quanto «entrambe le vie che da quella critica linguistica possono svilupparsi (l’accettazione del linguaggio come convenzione/artificio o la ricerca di una lingua che sia “oltre le parole”) sono come al solito per Michelstaedter sbarrate» (pp. 543-544). La tragica catena di eventi luttuosi che, come è noto, accomuna il vissuto dei due intellettuali (dal suicidio di Anna-Gioietta per Slataper a quello di Nadia Baraden, legata sentimentalmente a Michelstaedter, ma lo studioso rammenta anche Irma Seidler per György Lukàcs, più volte chiamato in causa nel saggio) culminata nella fine precoce di entrambi, pongono prematuramente fine alla riflessione di questi due esponenti del primo modernismo italiano, qui declinato nella sua peculiare accezione “di frontiera”.
E in qualche modo liminare può considerarsi, per tirare sommariamente le fila, anche questa decennale fatica di Mimmo Cangiano che, ricorda lo studioso ringraziando i tanti che lo hanno sostenuto e ispirato nel lungo cammino, lo ha visto impegnato su tre diversi continenti, sempre percorrendo il crinale talora impervio che unisce letteratura e filosofia, nel rendere conto di un dialogo trasversale, talvolta rilanciato talaltra interrotto o frammentario, fra i personaggi della rappresentazione, le comparse e i tanti che si muovono dietro le quinte. Ché qua e là il lettore/spettatore, con il quale il saggio si mostra talvolta esigente, sentirebbe il bisogno di essere preso per mano, magari ragguagliato fra un capitolo e l’altro per raccogliere le idee, in qualche misura fiancheggiato nello sforzo di trarre le conclusioni del ricco, complesso e ampiamente documentato argomentare di Mimmo Cangiano. Ma le voci degli autori, sia quelle che si infrangono contro la muraglia della Grande Guerra verso cui tutte tragicamente convergono, sia quelle dei sopravvissuti che continueranno, seppur spezzate, a farsi sentire, grazie alle generose citazioni dello studioso e alle chiose esaustive, fanno vibrare ancora vivo il dibattito cui hanno dato vita in quello straordinario primo ventennio del secolo scorso. E questo è, crediamo, davvero l’intento ultimo del saggio.