Povero Belli: miracolo
di nevrosi
creativa, prodigio
d'energica ipocondria,
fulgore contraddittorio,
groviglio
di altissima
poesia. Ma povero davvero, Giuseppe
Gioachino, perché solo attraverso
le sue confessioni si riesce a comprendere
quanto poco lieta fu la sua
vita, costantemente dominata da un
senso oscuro di minaccia incombente,
preda, scrive di se stesso, «del destino
e del diavolo».
E non era, come pure poteva sembrare
a quei tempi, una posa o un
vezzo d'artista svenevole e preromantico.
Osservate con lo sguardo
del cuore, ansia e infelicità vengono
fuori dalle lettere che vanno dalla
gioventù al momento in cui, nell'autunno
1837, Belli ebbe tali e tanti
guai, e tutti piombatigli addosso nello
stesso momento, da disamorarsi
fino a ripudiare l'opera colossale e
semi-clandestina, quel "monumento
alla plebe di Roma" che è poesia
assoluta, lirica prosaica e visionaria,
ma densa anche di cronaca, politica,
teologia, storia sacra, geografia,
antropologia; una variegata profondità
di spunti popolari e universali
da coinvolgere, in un corpus di 2279
sonetti composti in pochi anni, non
solo il bene e il male di vivere, ma anche
ciò che dovrebbe seguirne: «E
pper urtimo, Iddio sce bbenedica,/
viè la Morte,/ e ffinissce co l'inferno».
Così, osservato a distanza di due
secoli negli affetti come nelle incombenze,
sottoposto ad autopsia epistolare
nelle sue smanie e fragilità,
ecco che "Peppe er tosto", come si
firmava, genio comico e ritmico, giocoliere
di parole al livello di Rabelais,
Joyce e Gadda, si rivela un'anima
in pena: onesto ma pavido, mite
e pignolo, permaloso e lamentoso,
sempre afflitto da qualche affanno e
malanno; un tipo anche brillante,
curioso e culturalmente illuminato
in una società più che retriva, eppure
troppo spesso depresso, però anche
tentato da un certo istrionismo,
per poi ricadere nella solitudine,
tutt'altro che beata, dell'auto-nascondimento.
Troppe diverse persone, si direbbe,
in una sola fuggevole e in fondo
inafferrabile personalità. Accademico
ed erudito vorace e irrequieto, tale
da passare le occhiute dogane
pontificie con i libri proibiti "sotto
cappotto", e tuttavia scialbo, lezioso,
forse anche un po' ipocrita autore
di poesie in lingua italiana (a cui
però teneva moltissimo); partecipe
idealmente, ma al tempo stesso lungi
dall'impegnarsi personalmente
nei moti progressisti che a quel tempo
agitavano l'Italia e l'Europa, spaventato
quando viene a sapere che
Mazzini va diffondendo un suo sonetto
anti-papalino; cristiano sincero
e problematico, ma qualcosa non
torna se si pensa che dalla sua penna
escono tra le più spaventose blasfemie
della storia letteraria mondiale.
Tutt'altro che maledetto, del
"Commedione". Impiegato a lungo
nullafacente, come usava ai borghesi
benestanti, tiene i conti di casa,
ama viaggiare, adora Milano "città
benedetta", ma non esce mai dall'Italia;
sposatissimo a una donna più
anziana e ricca, Mariuccia, tipico
marito che ha appeso il cappello,
ma poi finisce per volerle davvero
bene, nel frattempo innamorandosi
di contessine e attrici di grido, a loro
volta destinatarie delle lettere più
interessanti e sconcertanti, un po'
da pavone, vai a sapere quanto sincere.
Padre ansioso, severo e soffocante,
ma pronto a dolersi se il figlio
lo posteggiato a studiare a Perugia,
Ciro, gli si rivolge con il "lei", agognando
dal fanciullo il più famigliare
"voi". Uomo da mille problemi e
contraddizioni, letterarie ed esistenziali.
Fino al dilemma dei dilemmi, e
cioè come sia stato possibile, di punto
in bianco o quasi, che da massimo
demolitore del potere temporale e
supremo sbeffeggiatore del governo
dei preti, si sia fatto codino, reazionario,
censore pontificio, addirittura
destinando l'opera sua magnifica
e sotterranea, già lodata da Gogol
e Saint-Beuve, nientemeno che "alla
fornace" - salvo affidare tale compito
a un intelligente monsignore,
Vincenzo Tizzani, che si guarderà
bene dal farlo.
Poche avventure artistiche sono
così ambigue e tortuose come quella
belliana. Basterebbe questo a spiegare
l'importanza storica e l'impresa
editoriale che l'editore Quodlibet
si è assunto nel pubblicare l'Epistolario
1814-1837 (1202 pagine, 90 euro),
volumone come se ne fanno ormai
purtroppo di rado, 597 lettere di cui
150 completamente inedite, 500 i testi
riportati dei suoi corrispondenti
in un tripudio anche tipografico di
varianti, note, fonti, abbreviazioni,
parentesi di ogni ordine e grado e
perfino note che consentono di approfondire
il vissuto di "996" (come
pure a un certo punto sigla i sonetti)
indicando i pesi, le misure e il valore
dei soldi nel primo Ottocento a Roma.
L'accurata introduzione è affidata
al giovane filologo-detective
Davide Pettinicchio che al mare magnum
della corrispondenza belliana
ha dedicato qualche anno di vita
ed energia orientandosi tra lettere
originali, pubblicate, non pubblicate,
copiate, fotocopiate, rubate, negate,
alcune anche recuperandone
in giro per l'Italia da archivi, biblioteche,
fondi famigliari discendenti
del Belli e dei suoi antichi destinatari.
Qualche mistero adesso si chiarisce.
Sia l'esplosione in romanesco
che il suo spegnersi trovano riscontro
biografico, secondo Pettinicchio,
in due crisi che appaiono insieme
pubbliche e private. Nel primo
caso, la scelta della lingua ha l'apparente
leggerezza di un divertissement
che via via si fa esperimento,
scorciatoia comunicativa, espediente
che permette a una sensibilità
estenuata di contenere il dolore con
il riso. E tuttavia, tanto più in una stagione
politica velleitaria e parolaia,
l'autentica e irrefrenabile eruzione
vulcanica che porta Belli a scrivere
anche dieci sonetti al giorno, ciò
che lo precipita nel pozzo nero della
miseria, al fondo dell'ignoranza e
della barbarie, dentro la rabbia sociale
e la potenza dell'osceno, ecco,
altro non è tale calata nel profondo
che il frutto di una "crisi di presenza",
malattia dell'animo, categoria
interpretativa utilizzata un secolo
dopo Ernesto De Martino. Con l'artificio
e la torsione della mimesi, Belli
recupera a se stesso un rapporto finalmente
vero con la parola, la voce,
il corpo e la realtà: donde lo sfavillio
del capolavoro.
Quanto alla fine del torrente lavico
dei sonetti, tutto si compie tragicamente
in una manciata di giorni:
morte improvvisa della moglie, scoperta
del disastro economico domestico,
creditori sull'uscio, trasloco
umiliante presso parenti ricchi, figlio
lontano in tutti i sensi, insomma
la catastrofe gli piomba addosso
mentre a Roma - di nuovo l'aspetto
pubblico - infuria una terribile epidemia
di colera che costerà 10 mila
morti. E stringe il cuore in quei giorni
di sofferenza e di panico leggerlo
e rileggerlo alle prese con un certo
"medagliere" che dalle Marche
l'hanno pregato di piazzare, e lui
non sa, non può, è a pezzi, ma teme
si possa pensare che se ne sia appropriato...
Fra le due crisi, l'una generativa
e l'altra terminale, rivive e si
consuma nelle lettere la più contorta
relazione fra il poeta e quella che
ai tempi non solo a lui doveva sembrare
un'opera impossibile, ma che
recitava apprezzatissimo nei salotti.
Perciò dei sonetti parla il meno possibile,
per fuggevoli accenni, "sillabe
romanesche", "versi da plebe",
"le mie satiresche follie"; quelle che
qualcuno avvicinerà un giorno a
Dante e a Shakespeare.
Povero e grandissimo Belli. «Intanto
il Tevere corre e correrà sempre
- scrive - come se il Signor Giuseppe
non fosse mai nato».