Il paesaggio piceno ha per me un significato particolare: nascendo è
stata la prima luce arrivata ai miei
occhi, dopo gli occhi di mia madre. E stato il primo nutrimento visivo che ho avuto. Qualcosa che non mi ha mai abbandonato nei miei cinquant'anni di carriera». Luce, paesaggio, nutrimento,
origini: si potrebbero scandire queste parole di Tullio Pericoli, ad accompagnare il percorso di Forme
del paesaggio (1970-2018), la grande
personale —165 le opere in mostra —
in corso fino al 3 maggio 2020 al Palazzo dei Capitani di Ascoli Piceno.
Un ritorno a casa per Pericoli, nato a
Colli del Tronto nel 1936, il cui percorso iniziò proprio con una mostra
ad Ascoli, nel 1958. Poi, dagli anni
Sessanta, nella sua vita entrò Milano e fu lì, negli anni del boom, che
iniziò — e continua tuttora — una lunga e straordinaria carriera tra pittura e illustrazione (per «Linus», «L'Espresso», «Repubblica»). Ma da quel paesaggio d'infanzia, da quel primigenio, intenso, essenziale "nutrimento" dello sguardo, l'artista non si è
mai allontanato. Le opere della mostra ascolana raccontano di questo
lungo amore e allo stesso tempo della preveggenza con cui Pericoli ha
saputo afferrare la poesia profonda,
e insieme i mutamenti, talvolta anche drammatici, delle colline marchigiane nel corso del tempo. Un
percorso a ritroso ci porta dai lavori
più recenti (1998-2009) alla fase intermedia (1976-1983), fino al ciclo
delle "geologie" (1970-1973) che chiude il cerchio, ricollegandosi alla prima sala. Nella prima sezione, infatti, le opere evocano l'armonia di
una terra antica, di colline dove l'uomo ha lasciato nei secoli i suoi segni
architettonici e i solchi delle sue coltivazioni, e insieme raccontano la
minaccia non solo della modernità
ma dell'attività sismica che nel corso del tempo ha colpito le Marche
(l'ultima volta nel 2016). Seguono gli
oli e gli acquerelli dipinti tra il 1998
e il 2009 dove l'artista, fin dai titoli
di alcuni quadri, da Paesaggio instabile (1998) a Paesaggio e frammenti
(2002), sembra di nuovo evocare
questo paradosso tra la quiete del
paesaggio campestre e ciò che si
muove sotto la superficie della terra. Del resto, come scrive il curatore
di Forme del paesaggio Claudio Cerritelli nel catalogo della mostra (edito da Quodlibet), Pericoli "non è interessato alle forme compiute, ma
alla genesi del loro divenire".
Un'indagine evidente anche nelle tele e nei disegni della fase tra il
1976 e il 1983, dove acquerelli, chine, matite su carta servono a raccontare le Marche con vedute aeree in
cui le linee delle colline, dei campi,
delle case e dei paesi sembrano segni di alfabeti sconosciuti e fantastici. Si arriva infine al ciclo delle "geologie", dove è ciò che è sotto la superficie, le radici delle piante, la
stratificazione del terreno, l'acqua
che penetra nella terra a far da soggetto a opere di tecnica mista, come
se l'occhio fantastico dell'artista potesse vedere anche attraverso gli
strati della materia. E del resto anche il Pericoli più noto, quello dei ritratti di artisti e personaggi per «Repubblica», ha saputo far questo: mostrare l'anima attraverso le linee, i
solchi, le espressioni di un volto,