Recensioni / Così la monografia etnografica divenne un pretesto nazista

on tutti i classici che ci sono giunti dall'antichità greco-latina hanno goduto del medesimo fatum. Alcuni sono rimasti intrinsecamente legati al momento della oro stesura, altri, al contrario, quasi per paradosso, hanno acquisito notorietà più perla loro fortuna in età moderna. E il caso della Germania di Tacito, uno dei pochissimi testi superstiti della letteratura etnografica che, con una certa abbondanza, avevano coltivato tanto i greci quanto i romani. Gli antichi, curiosi e affascinati dagli altri popoli (ma pronti a costruire anche barriere identitarie molto solide verso la dimensione dell'«altro»), non mancavano di inserire, oltre che in specifiche monografie anche all'interno di altre opere, ampie sezioni che descrivevano gli spazi fisici in cui erano insediate popolazioni di cui amavano illustrare usi e costumi della vita pubblica, politica e religiosa, ma anche di quella privata.
Maestro, in questo campo, era già stato, nel V secolo a.C., Erodoto, soprattutto nella trattazione della Scizia nel IV libro delle sue Storie, poi in età ellenistica il greco Posidonio, snodo di grande importanza (purtroppo per noi solo frammentario) per la costante dialettica con la filosofia stoica; per passare al mondo romano è ovviamente imprescindibile Cesare, con i suoi ampi excursus sui Britanni e sui Germani nel diario di guerra del De bello Gallico, così come Sallustio che inserisce nel suo Bellum Iugurthinum un'ampia sezione sulla parte di Africa settentrionale occupata dal regno di Numidia. Tanto Cesare quanto Sallustio (insieme con altre fonti: di particolare rilevanza sono i Bella Germaniae di Plinio il Vecchio, anch'essi andati perduti) rappresentano il modello di riferimento per Tacito che già nell'Agricola (scritto quasi in contemporanea con la Germania, ai primi anni dell'impero di Traiano, quindi intorno al 100 d.C.) si era cimentato in un'ampia digressione geo-etnografica sulla Britannia, propedeutica alle sue riflessioni sulla natura dell'imperialismo romano, magistralmente formulate nel noto discorso del comandante britanno Calgaco.

Lettura identitaria antiromana
Con la Germania Tacito compie un vero e proprio salto di qualità: quello che nell'Agricola era ancora solamente un excursus, purplasmato nel solco di una filiera letteraria di assoluto prestigio, diventa ora una compiuta monografia, l'unica integralmente superstite del genere etnografico (con l'aggiunta, se vogliamo, dell'Indiké dello storico greco, di poco posteriore, Arriano, anche se tra le due opere le differenze sono notevoli per struttura formale e per finalità ideologiche).
Tacito riteneva, sul fondamento di Cesare, e in questo distanziandosi dalle fonti greche (dove prevaleva la tesi della contiguità coni Celti), che i Germani fossero un popolo autoctono, non contaminato dal contatto con altre genti. Una simile affermazione non poteva passare inosservata quando, in età moderna, la Germania<7i> prese consapevolezza della sua identità storica e culturale, spesso idealizzata e costruita volutamente in antitesi a Roma, ai suoi valori, alla sua storia. Le tappe di questo percorso sono state diverse nel tempo, ma in ciascuna l'influenza della Germania è stata fortissima, grazie alla sua rilettura ideologizzata e alla voluta trasformazione di un classico «antico» in un testo militante di orgogliosa rivendicazione di «diversità» rispetto al mondo romano violento e moralmente corrotto. Sono sufficienti due esempi emblematici.
Il primo è la riforma luterana in cui la Germania, già da tempo sede di movimenti riformatori e antipapisti, si costruisce come l'«anti-Roma» in nome di un ritorno alla vera dottrina evangelica. Il secondo, con connotati drammatici e criminali, si colloca durante il nazismo: l'idea di una «purezza» e di conseguenza di una «superiorità» innata della razza germanica trovava nella Germania la sua presunta giustificazione storica. Il parossismo arrivò al punto che, durante la guerra, Himmler si pose alla caccia del codice che risaliva direttamente al celebre manoscritto dì Hersfeld, contenente le opere minori di Tacito, giunto in Italia con ogni probabilità nel 1455 per opera di Enoch d'Ascoli: per via ereditaria questo testimone senza dubbio prezioso era pervenuto nella biblioteca di un nobile marchigiano, il conte Balleani, la cui villa di Jesi venne sottoposta a minuziosa perquisizione da parte delle SS che tuttavia non riuscirono a scoprire il manoscritto, fortunosamente preservato nelle cucine (ora è conservato nella Biblioteca Nazionale di Roma).
«Uno dei cento libri più pericolosi al mondo»: così, come noto, ha definito la Germania Arnaldo Momigliano e a buon diritto questo giudizio vale, come si è visto, per i molti risvolti della sua ricezione in età moderna (che paradossalmente si contrappone al generale silenzio su Tacito in età tardoantica e medievale, assai meno noto e discusso, anche nelle opere maggiori, rispetto a Sallustio o a Livio). Tuttavia è lecito chiedersi: quale obiettivo si proponeva Tacito con la stesura del la sua Germania? Un tentativo di risposta viene dalla più recente edizione — Tacito, Germania, Quodlibet (pp. 512, € 19,00) —, a firma del filologo Giuseppe Dino Baldi, che in precedenza si era dedicato con profitto anche all'Anabasi di Senofonte e a saggistica di storia della filologia (si ricordi almeno Filologi e antifilologi, pubblicato da Le Lettere nel 2006).

Un dibattito critico secolare
Senza tralasciare uno spazio sintetico, ma significativo, alla fortuna dell'opera (cui sono dedicate le pp. 53-64 dell'Introduzione), Baldi dedica opportunamente la prima sezione a una rilettura a tutto tondo della Germania, dimostrando di sapersi muovere con originalità all'interno di un dibattito critico secolare che appare sempre filtrato con ponderazione, senza eccedere in dettagli inutilmente eruditi. Sono due, a mio avviso, i punti di forza di questa parte: la considerazione delle finalità specifiche dello scritto tacitiano e la rappresentazione dei Germani che porta lo storico a una profonda riflessione sul livello di degrado e di corruzione morale dei suoi contemporanei. Nel primo caso Baldi definisce la Germania come un «instant book», forse con l'intenzione di indurre Traiano a chiudere definitivamente i conti con coloro che poco prima, nel 9 d.C., avevano inflitto ai Romani l'umiliante sconfitta di Teutoburgo, solo in parte riscattata dalle successive vittorie di Germanico e dagli abborracciati tentativi di Domiziano, messi in atto soprattutto con finalità propagandistiche che Tacito conosce e smaschera con sarcasmo. E una tesi di certo interessante, che lo studioso ben argomenta, ma che, a mio avviso, ha il limite di chiudere lo scritto nell'angustia di un unico peculiare momento, ridimensionandone così la portata politica a più lungo spettro. A parere di chi scrive, la Germania è forse qualcosa di diverso rispetto a un'opera dalle finalità militanti, poiché rappresenta, pur nei panni formali dello scritto etnografico, una vera e propria proposta geopolitica che Tacito consegna a Traiano, nel momento in cui quest'ultimo con le guerre daciche si avvia a riproporre l'Oriente come baricentro della politica estera imperiale.
Nel secondo caso, invece, è merito di Baldi aver definito con grande lucidità i contorni delle relazioni tra Romani e Germani e soprattutto del modo in cui Tacito, attraverso il confronto con una popolazione che rimane a tutti gli effetti «barbara» (e come tale incapace di ogni forma di integrazione), analizza la società romana del suo tempo attraverso una sorta di «esercizio spirituale» di matrice stoicheggiante (così l'omonimo paragrafo, alle pp. 36-40). Lo scopo è indurre il lettore a volersi riappropriare di quelle qualità, come la fides, lapudidtra, la nobilitas, un tempo patrimonio dei Romani delle origini (come nello stesso periodo andava predicando anche Giovenale nelle sue Satire) e ora del tutto evaporate a causa del rilassamento morale dilagante. Giustamente Baldi precisa che in questo modo Tacito «più che al miglioramento individuale è interessato al progresso collettivo», ma forse andava specificato che il nostro storico non è mai stato attratto «professionalmente» dalla filosofia, che ha sempre mediato attraverso la retorica.
La traduzione è in genere attenta e precisa: coglie bene lo stile peculiare di Tacito, asimmetrico, variato, nervoso, incubo di molti studenti liceali, cercando in più di impunto di sciogliere per maggior chiarezza i tanti costrutti impliciti che ne costellano il dettato, senza scivolare nel rischio (in cui, ad esempio, cade spesso Elisabetta Risari, nella sua pur buona versione per gli «Oscar» Mondadori) di modernizzare eccessivamente la resa.
L'ampio commento, scandito per capitoli, contribuisce con efficacia a illustrare i molti livelli dell'opera: largo spazio è dedicato all'illustrazione puntuale degli aspetti geografici ed etnografici alla luce delle fonti utilizzate da Tacito (si veda nel merito anche il ricco regesto allestito alle pp.413-490), ma non mancano osservazioni più puntuali di lingua e di stile (in particolare a proposito del dialogo, già riscontrabile nell'Agricola, non sempre evidente e scoperto, ma costante, col Virgilio dell'Eneide, grande archetipo anche ideologico dell'imperialismo romano e del compito imprescindibile di regere populos).
Un plauso meritato va alla casa editrice Quodlibet che, pur non disponendo di una specifica collana di testi antichi, ha voluto inserire la Germania nella serie «Compagnia Extra», in dialogo con opere talora di stretta contemporaneità. Una scelta che sancisce, almeno così speriamo (al netto dei risorgenti nazionalismi), la fine della «pericolosità» di questo testo e la sua rinnovata consacrazione nel novero degli autentici classici.