«I would prefer not to»:
le parole memorabili
pronunciate da Bartleby sono tra
le più enigmatiche della letteratura mondiale. La frase dello scrivano di
Melville vale come insegna di
un'antivolontà, che segue rotte
impreviste, elude i destini e le
trame che potrebbero indirizzare la storia verso un esito o addirittura dotarla di un 'messaggio'. Dimessa e insieme lapidaria, inspiegabile eppure forte
del più chiaro dei significati -
cioè l'assenza stessa di significato al di là del trascorrere naturale di- un'esistenza che non si lascia imporre obiettivi e direzioni -, la frase di Bartleby è anche
la formula ideale per accedere a
uno degli scrittori italiani meno prevedibili, meno inquadrabili in un ruolo e in un destino
univoci, tanto sul piano letterario quanto su quello esistenziale: Gianni Celati.
Proprio il saggio premesso
alla traduzione celatiana del
Bartleliy (Feltrinelli 1991) apre
ora la raccolta Narrative in fuga, a cura di Jean Talon (Quodlibet «Compagnia Extra», pp.
348, € 18,00).11 libro comprende quattordici scritti su autori
americani, francesi e irlandesi:
da Hawthorne a Melville,
Twain, London; da Stendhal a
Céline, Michaux, Perec; da
Swift a O'Brien, Beckett e Joyce
(il cui Ulysses è stato oetto di
un'altra traduzione o ri-creazioneda parte di Celati). A legare tra loro i saggi, tutte introduzioni o postfazioni composte
tra il 1979 e i12013 e in gran parte riviste, è proprio il motivo
della fuga evocato nel titolo: è
in «fuga perpetua» Huckleberry Finn; nelle avventure del
Buck londoniano i «moti di fuga con cui si risale l'oscura traccia dell'evoluzione» prevalgono sui «discorsi didascalici»;
fuggono il Wakefield di Hawthorne e il Brooksnúth di Henry James e sono sempre in fuga
«i reduci céliniani, traumatizzati e deliranti». Del resto, proprio la «linea di fuga» è un'immagine e insieme un concetto
interpretativo ricorrente con
cui Celati definisce la prospettiva dei personaggi che si muovono nelle sue 'narrative', quelle
che ha inventato e quelle che
ha studiato o tradotto. Che
cos'è questa linea di fuga, verso
dove è orientata? E l'obiettivo
di uno sguardo straniante e utopico, che punta il mondo da
lontano come a volerne ricevere un'immagine derealizzata;
uno sguardo che appartiene ai
visionari, ai folli e agli strambi,
indifferente se non proprio
contrario alla coerenza e alla finalità delle azioni.
«1 would prefer not to» - anzi:
«Avrei preferenza di no» secondo la traduzione che ne dà lo
stesso Celati - può diventare
l'insegna ideale non solo di una
`narrativa in fuga' ma di una sorta di 'funzione Celati' che spinge a riattraversare la letteratura
per cercare le ragioni dello spaesamento e della stupefazione,
anziché quelle cli iui'inutazione assuefatta del reale. Quest'ef
finto di fuga non è solo concegueiiza del carattere dei personaggi, ma anche e forse soprattutto del loro linguaggio, del loro stile, cui Celati dedica da scrittore-traduttore osservazioni
tanto suggestive quanto puntuali. A interessarlo è soprattutto la nascita o piuttosto lo scatenarsi nell'America di fine Ottocento cli una lingua letteraria
nuova rispetto all'inglese britannico; scrive per esempio che
se «Mark Twain è riuscito a raggiungere un pubblico così vasto
e vario, è grazie a una lingua
sciolta e splendidamente superficiale, come nessuno aveva
mai scritto». In questo senso, l'espressione è uno strumento più
efficace della trama per restituire il senso di libertà e di erranza
che connota la narrativa secondo Celati. «L'esercizio della scrittura - osserva nel saggio su Bartleby lo scrivano - dipende da un
andamento inerziale delle parole, che ci portano dove vogliono
loro, mai dove vogliamo noi.
Portano dove sono chiamate
dalle voci, sempre molto lontano, fuori da qualsiasi territorio
d'appartenenza».
E questa consapevolezza forse ad aver reso Gianni Celati
uno degli scrittori più mobili
della letteratura italiana contemporanea, che per giunta ha
saputo rendere tale qualità un
connotato stilistico e in generale un aspetto del suo mondo di
scrittore, in costante movimento tra paesaggi e lingue. Se si
vuol provare a leggere e capire
Celati occorre proprio seguire
quel movimento, senza affrontarlo con un atteggiamento critico per così dire stanziale, che
tenda cioè a far accasare lo scrittore negli spazi ben delimitati
delle categorie e dei canoni. Per
quanto classico (tanto da meritarsi un «Meridiano»), Celati
non potrà mai essere canonico
nel senso più inerte ciel termine, né potrà essere mai facilmente localizzato. Bisogna rinunciare ad affemulo, ma lasciare che nei suoi guizzi ci offra su di sé diverse prospettive;
nei suoi confronti, l'atto critico
non deve disporsi come davanti
a un paesaggio inquadrato nella sua cornice, ma come davanti
a un collage. Perciò le prospettive non possono che essere multiple e le interpretazioni polifoniche, come sono quelle fornite
dal n. 40 di «Riga», anche questo
pubblicato da Quodlibet: Gianni Celati, a cura di Marco Belpoliti, Mario Sironi e Anna Stefi
(pp. 518, € 28,00). Un numero
del periodico dedicato a Celati.
era già uscito nel 2008; rispetto
a quella versione, il nuovo volume guadagna circa duecento pagine e cede alcuni testi (inseriti
nel frattempo in altre raccolte
pubblicate o in uscita), acquistando in cambio scritti, saggi e
recensioni degli ultimi anni.
Preceduti dall'editoriale e dalle
'dediche' di Arminio, Cavazzoni e Benati., i testi di Celati, composti in un arco di tempo che va.
dagli anni settanta ai dieci del
nuovo secolo, sono distribuiti
in cinque sezioni (più una cui interviste e conversazioni), seguite da un'antologia della critica
che comincia con Calvino, Gramigna, Ghirri e arriva fino alle
voci più recenti.
Di particolare interesse è il
capitolo VI «Magazzini d'arte e
di scarti», ampliato rispetto alla versione del 2008; vi sono inclusi i testi cli Celati sullo spazio e sulla narrazione, oltre che
su autori (Leopardi per esempio) e opere cruciali per la sua
riflessione. È in questi scritti
che si riconosce con più chiarezza il legame tra critica e narrazione che caratterizza la
scrittura di Celati e che questo
volume di «Riga» vuole mettere in luce. Racconti, progetti,
scritti sul tradurre, viaggi: i diversi generi e funzioni della
scrittura compongono un'immagine variegata ma coerente,
che trova un pendant visivo
nell'Album alla fine ciel volume.
Qui è raccolta una quarantina
di scatti celatiani, in anni e luoghi diversi, e spesso in pose o situazioni strambe e curiose;
quel senso di spaesamento o disambientamento, illustrato
dalle foto, è il punctunt che dà
senso all'insieme e rende spiegabile il trascorrere della scrittura di Celati dalle comiche ai
paesaggi, dall'invenzione alla meditazione. Scrivere e viaggiare sono attività che hanno
in fondo gli stessi moventti e
che, per Celati, rispondono ai
medesimi principi.
Se il Celati viaggiatore (Andar
verso la foce, 2008) è ispirato
Ball' «anonimato dei posti, il vuoto andando per le campagne, la
totale manruiza di temi considerati "interessanti"», dall'assenzacliogni teoria, il Celati narratore (Il narrare come attività
pratica, 1998) crede «che il narrare consista nel tenersi sul filo della temporalità: ossia nel
sentire e far sentire come tutto cambia ogni momento, e come in ogni momento si debbano usare le parole in un modo
diverso, con accezioni diverse; e nel sentire e far sentire
che tutte le nostre frasi e gesti e toni
e toni dipendono dal variare
dei momenti, nella fluidità dello scorrimento, nell'impossibilità di fissare un senso perpetuo e definitivo».