Elena Bellantoni è una di
MI quelle rare artiste e
performer che sa trasformare la
politica in un atto poetico di
lunga durata. Riesce a insinuarsi
profondamente tra le pieghe del
quotidiano sulla scorta di gesti
misteriosi, a volte rituali, altre
ancora magici. Nata nel 1975 (a
Vibo Valentia, vive e lavora tra
Roma e Berlino), Bellantoni il 4
dicembre sarà la protagonista
del focus che si terrà nella
Videogallery del museo Mauri,
con la sua «collezione di storie» e
la proiezione di cinque video che
ripercorrono i suoi ultimi anni di
produzione. Sarà l'occasione
anche per presentare il nuovo
lavoro, On the Breadline.
«On the breadline» è un progetto artistico itinerante che
attraversa i confini ma ha come filo conduttore il «pane» e
la sua accidentata biografia.
Perché è stato individuato proprio questo cibo?
Il pane è l'oggetto grazie al quale costruisco la mia narrazione
nell'attraversare i diversi paesi
che considero legati, in qualche modo, dalla cultura mediterranea. L'idea è stata quella di
far dialogare alcuni luoghi «caldi» - Belgrado, Istanbul, Atene,
Palermo - così che possano raccontare il nostro vivere contemporaneo. La mia breadline
tenta di creare un ponte tra civiltà diverse, cresciute su sponde opposte dello stesso mare,
ma accomunate da un retroterra culturale molto simile.
Ho deciso, quindi, di seguire
la linea tracciata dal grande scrittore serbo/ croato - che incontrai
a Roma più di dieci anni fa durante una sua conferenza e scomparso da poco, Predrag Matvejevic. «Mi sono reso conto di come culture lontane avessero
nel grano delle radici in comune. E la storia delle prime farine dei nomadi, delle sacche
dei viandanti e del pane dei frati: che è lo stesso dei mendicanti
e dei carcerati». Così Matvejevic
narra il grandioso vagabondaggio del grano nel suo libro Pane
nostro. Questa sua «geopoetica» ha segnato sicuramente
l'avvio del mio percorso.
Il pane non rappresenta solo il momento del convivio e
del confronto tra genti diverse,
ma è legato alle rivolte popolari che si sono succedute in questi paesi. La rivolta del pane è il
nome che viene dato a movimenti di protesta che hanno
unito popolazioni differenti
nel nome della giustizia sociale. Un semplice pezzo di pane
racchiude in sé elementi vitali:
la terra che genera il cereale,
l'acqua che impasta, l'aria che
lievita, il fuoco che cuoce. Esso
ha ispirato, nei secoli, poeti e
scrittori di ogni luogo che ne
hanno celebrato le virtù, i significati, la simbologia, le suggestioni, i sapori. Il grano è l'oro
dei poveri. La grana è anche sinonimo di soldi, così come la
pagnotta, la breadline è dunque una linea di povertà.
«Impastare il pane» è stato, in
passato, un lavoro tipicamente femminile. Nona caso si parla di «lievito madre», pasta genitrice... Quali sono stati i suoi
riferimenti?
Mesto su cui mi sono concentrata per iniziare questo mio lavoro
è Bread&Roses che è il frutto di
un discorso politico fatto dalla
leader socialista femminista Rose Schneiderman, durante uno
sciopero di lavoratrici negli anni Dieci del Novecento in Usa.
Lo slogan delle operaie «vogliamo il pane ma anche le rose!»
ispirò il titolo della poesia di James Oppenheim, divenne una
canzone musicata da Mimi Farina nel 1974 e cantata poi - tra i
tanti e le tante interpreti - anche da Joan Baez. È considerato
l'inno delle lavoratrici e deilavoratori. Il canto ha risvegliato in
me l'intenzione di mettermi sulle
tracce del significato del pane,
per indagarlo nelle sue varie declinazioni, proprio nei paesi
che ho attraversato.
Per esempio, tra le tappe della
mia breadline c'è stata Atene.
Girando in lungo e in largo dal
suo centro verso la costa del Pireo, e facendo ricerche sul territorio, ho incrociato molte fabbriche chiuse, anche a Eleusi,
piccola cittadina subito fuori la
capitale greca. I misteri eleusini
hanno creato un cortocircuito
nella mia testa, ho messo subito
a fuoco Demetra, dea della Madre terra e quindi del grano, chicchi che nascondono un mistero.
L'etimologia di questa parola si
riallaccia al greco mystérion, segreto, enigma. La divinità è colei che custodisce l'arcano: tutto ciò mi ha spinto ad andare fino in fondo al mio percorso, individuando le briciole per capire come il pane sia il simbolo di
tante narrazioni.
Demetra rappresenta la dea
dell'agricoltura, costante nutrice della gioventù e della terra
verde, artefice del ciclo delle stagioni, della vita e della morte,
protettrice del matrimonio e
delle leggi sacre. Il pane è donna
che impasta con il suo «lievito
madre», è una strada da seguire,
è condivisione e lotta. 11 pane è
anche lavoro, simbolo di rivolta,
di forza, è Mediterraneo.
«L'impastare» è una riflessione
sullo sporcarsi le mani, la metafora di una partecipazione attiva nella vita.
Comeviene narrata nel tempo
la «strada del pane»?
On the breadline è un progetto
di natura itinerante, molto complesso e senza l'Italian Council
-il bando del Mibact che ho vinto nel 2018 - non avrei mai potuto realizzarlo. Lavorare in quattro paesi come l'Italia, Serbia,
Grecia e Turchia ha richiesto un
grosso investimento di risorse
ed energie. On the breadline segue il fil rouge della mia ricerca
artistica. Si muove dall'investigazione sul territorio, si costruisce attraverso la relazione e l'incontro e prende forma con il video, la performance e l'installazione. L'elemento della lingua
e della traduzione è centrale in
questo processo di ricerca. La
lingua è un soggetto identitario
e la traduzione diventa lo spostamento e la materia di scambio e tensione. L'elemento «musicale» è stato un «tema» nuovo, che ha amalgamato e impastato territori diversi, facendo
emergere caratteristiche comuni e differenze.
La parola breadline è ambigua in inglese: è sia la linea del
pane ma anche quella della povertà che io declino come linea
di crisi. «Crisi» è un termine abusato nel nostro presente, viene
sempre utilizzato per alimentare conflitti e paura: è un concetto ambivalente perché si manifesta non soltanto attraverso
una spinta interna, ma con alcune condizioni «esterne», che
invece sono imposte. I paesi
che ho scelto per il mio progetto hanno subito e continuano
a subire, pervari motivi, tensioni di questo tipo: dalla crisi balcanica a quella greca, alle attuali posizioni turche che provocano squilibri, con modi violenti,
in un intero paese e in quelli vicini - Italia e, in particolare, la
Sicilia, luogo di sbarco e porta
del Mediterraneo. La mia
breadline<7i> pedina queste tracce:
s'inoltra in sentieri in cerca di visioni, semina granelli inseguendo avvistamenti e nuovi punti di
vista, tenta di definire il presente in cui viviamo.
Fra i paesi inseriti, appunto,
c'è anche la Turchia, oggi al
centro di un disastro politico e
umanitario. Non pensa si debba boicottare o forse è un gesto
radicale anche andarci?
Credo che quello che sta succedendo in Turchia sia molto grave e che la comunità internazionale debba intervenire per fermare le atrocità volute dal presidente Erdogan, che non solo sta
brutalmente attaccando il popolo curdo, ma anche mettendo in
discussione il diritto di libertà
all'interno della Turchia stessa.
Molti artisti, intellettuali, scrittori e altre persone che non si allineano al «regime» vengono di
fatto messi a tacere, in modo anche duro. In questo momento
non so se ci sarà un'opportunità
di replica, di «redenzione», più
mi inoltro in questo sentiero
tracciato dalle briciole di pane
più mi rendo conto della complessità in cui viviamo e dei giochi di potere di cui siamo spettatori. In questa parvenza di democrazia dominata dal capitalismo globale, dal consumo di
cui siamo ormai tutti dipendenti, dovremmo forse iniziare ad assumere posizioni scomode, fuori dalla retorica, dal
pietismo e dal qualunquismo.
Ma come emanciparci da
tutto questo? Siamo anestetizzati al dolore, alla sofferenza
ma anche alla ricerca della felicità che è stata sostituita dal
benessere. Abbiamo costruito
il nostro piccolo orto, le nostre certezze identitarie, pensando di essere sempre nel giusto e fidandoci del pensiero
dominante. Quando abbiamo
capito che qualcosa non andava, siamo comunque diventati testimoni passivi di guerre
di confine, genocidi, firmando un accordo per una «tranquillità preventiva», non rendendoci conto di essere in libertà vigilata.
Nell'ultimo decennio stiamo assistendo all'insorgere di
nuovi populismi che regolano
la politica generando insicurezza e spingendo sulla paura,
non ultimi i fatti del Cile, un
paese a me molto caro - dove
ho prodotto miei lavori. Anche qui, dopo gli anni di dittatura di Pinochet, sta tornando
la violenza in un clima di austerity e repressione. Per me non
è stato affatto semplice lavorare in Turchia poiché On the
breadline ha un forte impianto «politico /poetico»; alcune
ragazze che avrebbero dovuto partecipare al coro e alle riprese non hanno potuto farlo.
E stato loro proibito dai datori
di lavoro. Dall'altra parte, l'esperienza umana (che è fatta
di incontri), è stata intensa e
mi ha restituito molto: venticinque donnehanno voluto interpretare il canto di protesta
proprio nell'antico cantiere
navale del Corno d'oro - simbolo della Turchia moderna di
Ataturk - che presto scomparirà per dare spazio 2 porti di yacht, 2 hotel di lusso a 5 stelle di
400 camere ciascuno, una moschea di mille capacità, un centro commerciale e altre unità simili... il progetto è una grande
opera che rappresenterà il nuovo «sultano» di Istanbul.
Ho concluso il mio intervento in città con una performance
in solitaria, Soap Opera.
Sotto un sole apicco tra il monumento alla Repubblica scolpito dallo scultore italiano Pietro Canonica e la nuova moscheadi 1500 mq. voluta dalpresidente, ho deciso di iniziare a
pulire, con un secchio e due
spazzole, piazza Taksim. Un'azione secca e semplice nel
mezzogiorno di fuoco tra me e
la città. Nel catino dell'acqua
ho versato qualche goccia di
sapone che ho montato a neve, come se stessi preparando una torta. Un gesto domestico quello del pulire che, fuori casa, assume la forma di una
protesta silenziosa: la reale fatica di un lavoro impossibile,
il tentativo di lavare una piazza così enorme, il dramma di
un luogo che ha accolto proteste durante il 2013 contro il
premier turco Erdogan e la
sua scelta di demolire il vicino
Gezi Park per costruire, anche
qui, una caserma militare e un
centro commerciale.
Nel focalizzare la sua interazione con le donne lavoratrici sulla musica si è documentata sui
cori collettivi e le lotte passate?
Più di un anno fa stavo camminando vicino alla Pelanda a Testaccio, qui a Roma, e ho sentito
delle voci venire da una stanza.
Mi sono affacciata e ho trovato
un coro che stava cantando, era
il Coro inni e Canti di lotta de Laboratorio di canto politico della
Scuola popolare di musica di Testaccio, diretto da Sandra Cotronei. A volte succede che le cose ti
«incontrano». Devi lasciar spazio e seguirle. Così ho fatto.
Funzione principale di questi
canti è proprio quella di denunciare, protestare, manifestare indignazione e disapprovazione,
ricordare e tramandare fatti di
cronaca ed esperienze di vita.
Sandra Cotronei ha riscritto
tutta la partitura di Bread&Roses e io con ogni direttore e direttrice del coro - Dragana Javanovic, Maria Michalopolou, Garip
Mansuroglu, Monica Faja - nei
vari paesi, ho fatto la traduzione
e l'adattamento musicale. Sandra mi ha accompagnata in quest' esperienza di scrittura e di
ascolto, di note e contralti, di intensità e di senso rispetto a ciò
che desideravo e avevo in mente.
La dimensione della protesta, dello sciopero in generale
per me è potentemente collettiva, non solo individuale. Il gruppo ha una forza che il singolo
non possiede: per questo ho
scelto di coinvolgere cento donne. Il coro offre questo effetto,
somiglia a un camminare insieme. Forse l'unica cosa che resta
da fare, in questa idea di futuro
che non sta più in piedi da sola
e in questo presente complesso
e difficile da decifrare, è iniziare
a camminare all'unisono.
Come immagina la conclusione del progetto, affidata a quale immagine o luogo?
Breadline è un progetto «generativo»: a Istanbul è nato un
nuovo coro i121Choir legato alle proteste femministe, ad Atene le ragazze e le mamme del
coro, abitanti del quartiere
operaio di Keratsini , grazie alla Breadline sono partite per
un viaggio per un concorso canoro, lo stesso in Serbia e a Palermo il coro di Monica Faja
vorrebbe venire a Roma per
performare live Pane e Rose.
Sarebbe bello mettere insieme tutte queste donne in un
unico luogo. Succederà in modo immateriale con la mia istallazione video a 4 canali - uno
per ogni paese - che andrà a
comporre il lavoro finale. Immagino un'installazione di natura immersiva in cui lo spettatore è al centro della stanza e alle quattro pareti scopre gradualmente i luoghi distopici in cui
queste donne agiscono e lentamente arriva la voce del canto
che, a un certo punto, creerà
una cacofonia disturbante.
Il 4 dicembre presenterò al
museo Maxxi il libro On the
Breadline, edito da Quodlibet -
che si può considerare anche il
mio diario di viaggio - con gli interventi di Riccardo Venturi,
Stefano Chiodi, e della curatrice Benedetta Carpi De Resmini. Il progetto è stato promosso
da Wunderbar Cultural Project
e gestito da Manuela Contino.
Insieme alla videoinstallazione, ho prodotto un disco in vinile 33 giri, dei piccoli pani di ceramica per ogni paese, dei diségni
a china, quattro performance
documentate con video. La mostra sarà nel 2020, sicuramente
in Italia e poi mi piacerebbe riportare anche indietro il lavoro
finito nei paesi dove sono stata.
Questa strada che ho battuto
mi ha accompagnata, le parole
del canto si sono incarnate in
gesti, l'immaginazione ha preso forma in luogo fisico e «the
right to life, and the sun and
music and art» ha scandito il
mio itinerario.