Recensioni / Møllergata 19, il diano di Moen risposta alla barbarie nazista

Nel 1944 la Norvegia era un Paese in ginocchio. Le truppe tedesche l'avevano costretta, quattro anni prima in poco più di due mesi, a un'umiliante capitolazione. Il collaborazionista Vidkun Quisling si comportava come un pupazzo nelle mani di Adolf Hitler. Il vero capo era Josef Terboven, che rispondeva soltanto al Führer. Eppure il popolo non demordeva, al punto che in molti ostentavano su anelli e spille il monogramma del re, Haakon VII, fuggito in Gran Bretagna. La stampa clandestina circolava: fra i collaboratori del "London-Nytt", uno dei fogli che inneggiavano alla resistenza, figurava Petter Moen (nella foto), impiegato in un agenzia di assicurazioni e lucido intellettuale militante antinazista, il quale venne arrestato i primi giorni di febbraio, insieme alla moglie, Bergliot, soprannominata Bella. Mentre lei fu internata nel lager di Grini, riuscendo a sopravvivere al termine della guerra, l'uomo finì nel famigerato reclusorio di Oslo, sede della Gestapo, dove i prigionieri, partigiani o semplici sospetti, subivano torture spaventose. Mollergata 19, l'indirizzo di questo luogo scuro e tenebroso ubicato nel centro della città, come la Lubjanka moscovita o il carcere di via Tasso a Roma, è anche il titolo che l'editore italiano, Quodlibet, ha dato al volume che raccoglie il diario tenuto da Moen nei sette lunghi mesi della sua detenzione (pp. 198, traduzione di Bruno Berni, a cura di Murizio Guerri, 18 euro). Si tratta di un documento, comprensivo di foto e disegni, in molti sensi eccezionale: scritto di nascosto con una punta di metallo sulla carta igienica e poi infilato in involucri fatti passare attraverso la presa d'aria della cella, venne ritrovato a guerra conclusa dalla polizia norvegese. Il suo estensore era già morto. Infatti, dopo otto mesi dal giorno dell'arresto, l'8 settembre la nave tedesca che, insieme ad altri detenuti, lo stava deportando in Germania, naufragò a causa di alcune mine. Affogarono decine di persone, fra cui l'autore dei testi che oggi, a distanza di settantacinque anni, possiamo leggere per la prima volta nella nostra lingua. Chiuso in un cubicolo di otto metri quadrati, prima da solo poi insieme ad altri sventurati, Moen, il prigioniero numero 5842, eludendo la sorveglianza dei guardiani, riesce a sbirciare il mondo esterno: «Il sole splende e il traffico è iniziato nella Henrik Ibsensgate. La chiesa della Trinità - Deichman e la chiesa svedese formano una bella immagine... Le macchine girano nell'incrocio della Akersgaten. Il tram azzurro sferraglia in salita...». Sono schegge incandescenti che entrano nel girone infernale della Mollergata con potenza inaudita e trasformano i fogli di Moen, allucinati resoconti quotidiani, negli scudi difensivi capaci di attirare l'attenzione di Ernest Junger che li rievocò nel suo Trattato del ribelle. Prima ancora che la dimensione concettuale, importa cogliere il loro senso etico, come se il gesto della scrittura rappresentasse l'unica possibile risposta esistenziale alla protervia della barbarie. Allo stesso modo di quanto avviene nella preghiera, che non dovrebbe essere considerata «il porto d'emergenza della religione», non dovremmo concepire la letteratura quale riempitivo del vuoto. Scrivere significa mettersi in sintonia con l'energia vitale che ci sostiene. Solo così il Dagbok di Petter Moen può essere accostato a Resistenza e resa di Dietrich Bonhoffer.