Relazione complicata: quella tra committente
e architetto si sa che è una delle più
gustose, anche perché almeno tra grandi opere
novecentesche sono in ballo personalità e
caratteri non minimali. Così, da Tomaso Buzzi
che a Sabaudia prende alla lettera Lily Volpi
(e il telegramma d'epoca "faites-moi une petite
folie neoclassique", e verrà eseguita, avoja),
agli Hearst del castello di San Simeon, nella
California più drammatica, dove il tycoon editoriale
dell'epoca, ispiratore del "Quarto potere"
d'Orson Welles, commissiona quel sinistro
maniero all'architetta Julia Morgan, prima
architetta donna di California, probabilmente
lesbica (e lì, tra lei e l'uomo più potente
dei suoi tempi, convivenza, libri, e ipotesi suggestive). Può andare tutto benissimo, anche
con "threesome" intellettuali idilliaci: come
Gio Ponti e i coniugi Planchart nella celebre
villa di costoro a Caracas (secondo Vitruvio, il
grande teorico della architettura dell'antica
Roma, "il cliente è il padre dell'architettura e
la madre è l'architetto", scrive Ponti in una
delle 500 lettere che si scriverà coi Planchart,
committenti ideali, assidui lettori di Domus,
con cui progetta per via epistolare perfino i
servizi di piatti (ma lei, alla fine: la prego, almeno
le lenzuola me le lasci comprare al negozio,
come tutti). Un tipico disastro è invece
quello della Farnsworth House (1951), la celebre
casa metallica bianca di Ludwig Mies van
der Rohe costruita nei boschi di Plano, nei
dintorni di Chicago, per la dottoressa Edith
Farnsworth, brillante nefrologa e femme savante
conosciuta da Mies a un party. Lei gli
chiede subito una casa top, anche se forse nell'archistar
fuggita dalla Germania nazista ella
vorrebbe più d'un progettista. Presa dall'entusiasmo
lei compra il terreno dagli editori del
Chicago Tribune, poi devono aspettare che le
muoia una zia Farnsworth perché non ci son
più soldi. Subito tante grane, con equivoci bestiali,
e costi che come spesso succede lievitano
(da 58 mila a 74 mila dollari), finendo pure
in tribunale. Mies vincerà la causa, ma sarà
sottoposto a damnatio memoriae da parte della
stampa americana, per aver distrutto il significato
di villa americana, comprensibile se
pensiamo che siamo pre-Mad Men, tra le passamanerie
e le mogliettine che sognano Norman
Rockwell. Tutta la storia si trova in My
Farnsworth. Viaggio alla scoperta di una casa
per due, di Orazio Carpenzano e Cherubino
Gambardella (edizioni Quodlibet). Pare, scrive
Gambardella, che la Farnsworth avesse
scelto Mies perché era quello che costava meno
dei tre architetti più famosi del mondo (gli
altri due erano Le Corbusier e Frank Lloyd
Wright). O forse per affinità culturali. "Altri
ancora paventano più scabrosi retroscena",
scrive Gambardella, che ha guidato un gruppo
di suoi dottorandi alla scoperta di questa leggendaria
casa, cercando di immaginare come
sarebbe stata la casa voluta dall'una (più tranquilla
e comoda) e dall'altro (più estrema, una
scatola totalmente vetrata, col tetto trasparente).
I due sbroccheranno, come sempre nelle
coppie, su un dettaglio, i tendaggi che Mies
vorrebbe a coprire le vetrate, mentre lei si lamenta
che la casa manca di intimità, e le fa
paura che si veda dentro. Nel 1968 l'apice, il
comune le espropria un pezzo della proprietà
per farci passare un'autostrada, a quel punto
non ne può più, vende tutto e si trasferisce in
Toscana dove muore nel '77 dopo aver tradotto
molto Montale e Quasimodo.
Mies invece si era già disamorato del progetto
già da tempo, anche perché nel frattempo
lo scaltro assistente Philip Johnson gli
aveva copiato velocemente l'idea e costruito
in un battibaleno la sua Glass House identica:
ci si fa le foto con Andy Warhol e spacca.
Ma lui è avvantaggiato, costruendo una casa
tutta per sé, senza committenti tra i piedi.