Petter Moen, (1901-1944), matematico
e attuario di una compagnia di
assicurazioni, scrive un diario nel carcere
di Møllergata 19, Oslo, sede della
Gestapo. Vi si trova incarcerato perché
responsabile della stampa clandestina
norvegese; la detenzione dura dal febbraio
al settembre del 1944. Trascorre
i primi mesi in una cella di isolamento
priva di luce, con la finestra oscurata;
subisce pesanti torture nella Victoria
Terrasse (VT), quartier generale
della Gestapo, sede degli interrogatori
e quindi delle violenze fisiche e psicologiche.
Quando non viene torturato
vive nel terrore, in attesa di nuovi
supplizi. Dalle finestre della VT molti
prigionieri si buttano dalle finestre per
sottrarsi alle brutalità. Tutto è proibito
a Moer che, per non impazzire, stacca
un perno dalla tenda che oscura la
stanza e incide su fogli di carta igienica
piccoli fori per formare lettere, parole,
frasi: un diario. Composti cinque
fogli li arrotola in un sesto, li chiude a
caramella e li spinge nella grata della
presa d’aria. Ne scriverà un migliaio.
Verranno trovati a guerra finita.
Fin dalla prima seduta alla VT Moer
cede al dolore fisico, fa i nomi dei
membri dell’organizzazione e il senso
di colpa per il tradimento diventa un’ossessione.
Si angoscia, piange pensando
alla moglie, anche lei internata, e alla madre ormai morta che, lei sì, credeva,
pregava, leggeva la Bibbia. Una
madre che pensava sempre agli altri,
era forte, aveva fede in Dio. Dio compare
nel diario il decimo giorno. Moer
non è un credente, ma vuole mettersi
in strada per cercare il Dio della madre,
spinto consapevolmente dalla sofferenza
e facilitato dall’isolamento che
considera il giusto terreno di ricerca.
Prega un Dio sconosciuto e nel farlo si
interroga sulla sincerità del suo bisogno
di Dio. «Nell’angoscia grido: Dio,
aiutami. Questo grido mi aiuta. Allevia
e qualche volta cancella l’angoscia. Dio
allora ha aiutato?» (p. 19). Il culmine
della ricerca viene toccato mercoledì 23
febbraio, ventesimo giorno alla M19,
con queste parole: «Non farmi essere
un vento che soffia ora qui ora lì ma
fammi essere il grano che matura»
(p. 23). Il ventisettesimo giorno sente
qualcosa dentro di sé e spera di essere
sulla strada della conversione, ma
con l’allentarsi delle torture la soluzione
dei problemi matematici prende a
occupare lo spazio mentale del detenuto.
Il sei marzo confessa a se stesso
che se fosse fuori, «nella libertà», non
crederebbe perché quando il pericolo
diminuisce l’uomo riprende le redini.
A tratti crede di vedere con gli occhi
del padre e della madre, «ma credo
che manchi ancora molto» (p. 37).
Il 15 marzo scrive di aver faticato per
giorni con un integrale trigonometrico
e qualche giorno dopo ammette di essere
intellettualmente escluso dal credere.
Quando riemerge il terrore per la
VT, razionalità e psicologia lasciano il
posto alla richiesta di aiuto che presto
verrà derubricata a stato di debolezza.
Il 28 marzo dichiara di essere arrivato
più vicino a Dio, grazie alla solitudine
vede la strada, ma l’indomani mattina:
«Freddo e cinico il mio pensiero
in queste ore del mattino dice “Non c’è
nessun Dio”» (p. 52). Le voci blasfeme
si insinuano nella voce della preghiera
e l’8 di aprile, mentre tenta di pregare,
si trova davanti a un Accesso vietato:
il «mondo della preghiera si sta
allontanando».
Ad aprile inoltrato Moers viene spostato
in una cella piccola ma luminosa
che divide con altri prigionieri e dopo
un mese ammette una vaga nostalgia
per la questione religiosa ormai liquidata.
I mesi che lo separano dal 4 settembre
raccontano la cronaca della
difficile convivenza con persone con
cui si «tira avanti». Un giovedì pomeriggio
Moers si interroga sull’impressione
che faranno i suoi scritti al padre
«credente» e sigilla la questione ammettendo
di aver fatto un’esperienza
religiosa «finalmente!» e di aver capito
che si tratta di un fenomeno esclusivamente
emotivo. Il 6 settembre del
1944 Moer viene imbarcato, insieme a
molti altri, sulla nave tedesca Westfalen
che, due giorni dopo, colpisce delle
mine e affonda. Non sapremo mai se
nelle ultime ore Moers abbia ripreso la
sua ricerca, quel che resta è una delle
sue ultime considerazioni: «“La grande
vittoria” mi è sfuggita dalle mani […].
Dico a me stesso: “hai fatto fiasco”» (p.
111). Sulla nave, poco prima del naufragio
Moers parla dei fogli nascosti a
un deportato che si salverà e, dopo la
liberazione, li indicherà alla polizia.
Il saggio di Maurizio Guerri, Scrittura
ed etica della resistenza, chiude il
volume collocando il diario nel contesto
della lotta per la liberazione della
Norvegia. Una particolare attenzione
è dedicata al tema della scrittura come
strumento per legare la propria vita
al senso dell’esistenza, per «prendersi
cura di se stessi», come «tecnologia
del sé» (Michel Foucault, p. 181). Ne
Il trattato del ribelle, Ernst Jünger – citato
da Guerri − parla degli appunti
di Peter Moen e li porta a esempio del
percorso che, toccati gli abissi, arriva
alle fondamenta dell’essere, incrina la
tirannia del dubbio e fa sì che l’uomo perda la paura. «Il norvegese Moen»
suggerisce Jünger «può essere considerato
il discendente spirituale di Kierkegaard
» (p. 183). Non manca l’accostamento
a Bonhoeffer a Tegel: «il nostro
rapporto con Dio è una nuova vita nell’“
esistere-per-gli-altri” […] il trascendente
non è doveri infiniti, irraggiungibili,
ma il prossimo, dato volta per
volta, raggiungibile» (p. 179).