Se “il pungolo di ogni vita intellettuale è la convinzione dello scacco o del fallimento o dell’insufficienza delle precedenti vite intellettuali”, il pungolo della filosofia tardo-moderna è quello dell’accesso al mondo. Un pungolo che le ha assicurato uno scacco tra i più cocenti.
Che di scacco si tratti non v’è dubbio, e di scacco matto, perché la posizione delle pedine più importanti non consente alcuna via di fuga. Tra queste pedine, i grandi antesignani della moderna svolta epistemologica per cui oggetto dell’indagine filosofica non è più il mondo, ma le modalità con cui l’essere umano vi ha accesso. Questa è una delle linee principali su cui Mariano Croce fa scorrere il suo elogio della postcritica (Postcritica. Asignificanza, materia, affetti, Quodlibet 2019), approccio che ha l’ambizioso obiettivo di inaugurare una nuova vita intellettuale per la filosofia.
Nell’alveo della filosofia moderna, il problema dell’accesso al mondo emerge entro una cornice teorica improntata alla rigida bipartizione fra il soggetto conoscente e l’oggetto conosciuto. Nel corso trisecolare dello sviluppo di questa divisione, i due termini sono venuti via via distanziandosi. Se per Kant, nume tutelare dell’ontologia bipartita, è ancora possibile rintracciare una presupposizione reciproca fra categorie dell’intelletto e dati dell’esperienza, con lo strutturalismo – massimo compimento del kantismo – lo iato si fa incolmabile: il linguaggio, chiave umana di accesso al mondo, è totalità in sé conchiusa, autosufficiente, sprovvista di legame intrinseco con ciò di cui dice. Lo iato è radicale: qui le cose, lì le parole. Le cose sono ridotte a materiale inerte, punti d’appoggio per distinzioni arbitrarie tra segni inglobati in catene di rimandi con altri segni, i cui anelli scorrono gli uni sugli altri in un processo interminabile di determinazione reciproca.
Il legame tra questo fil rouge della filosofia degli ultimi tre secoli e la critica sociale potrebbe sembrare debole; eppure il libro ci mostra che la filiazione è diretta. Da una parte, l’essere umano è confinato all’interno di una trama segnica, che sola consente la conoscenza delle cose. Dall’altra, tuttavia, questa trama è intricata, fittissima, e quindi proclive all’inganno. Ciò di cui l’essere umano ha esperienza è la manifestazione superficiale, l’attualizzazione circostanziale, di un complesso sistema di microstrutture su più livelli – e questi livelli sono a loro volta l’incarnazione di certe possibilità virtualmente presenti in una struttura totale. La critica sociale del Novecento – soprattutto quella che prende avvio dalla cosiddetta ermeneutica del sospetto – esalta questa superfetazione dei livelli e si pone il compito di riportarvi ordine per far emergere la realtà profonda che essi celano. La critica mira in altre parole a far emergere i meccanismi occulti che negli strati più profondi producono certe configurazioni degli strati più superficiali. Di qui, la tendenza al sospetto, che caratterizza parte massima della critica: quello che si dà a vedere dipende da cose che non danno a vedersi.
In questo quadro, la partita con il mondo è chiusa sin dall’inizio. Tutto quel che conta è capire come la ramificazione arborescente delle strutture si organizza in modo tale da produrre certi schemi di percezione della realtà e quindi di organizzazione di essa. La svolta kantiana rimane così inscritta nel genoma della critica sociale: per capire il mondo bisogna capire il modo in cui si produce la griglia concettuale con cui vi si accede. Per cambiarlo, bisogna cambiare questa griglia.
Tuttavia, insiste il libro, la postcritica – quantomeno nella declinazione di Croce – si presenta non tanto come denuncia del legame intrinseco tra una certa impostazione epistemologica e la teoria sociale, ma come una tecnica operativa che si sottrae all’apparato di cattura appena descritto: la postcritica rifiuta sin dall’inizio di presentarsi come un modo alternativo di intendere il rapporto tra parola e mondo. La prima mossa sarà piuttosto quella di illustrare il rapporto di indistinguibilità tra soggetto parlante e mondo parlato, mostrando l’insostenibilità della premessa epistemologica della filosofia tardo-moderna, secondo cui soggetto e un oggetto esisterebbero prima di una operazione che li posizioni come tali. Convocando un ricco pantheon di autrici e autori, Croce indica la complicata serie di operazioni che è necessaria per produrre un soggetto individuale – ma su questo torneremo con più calma in conclusione.
Varrà per ora la pena di premettere qualche indicazione metodologica. Sin dall’apertura, Croce ci presenta la postcritica come un fare. In ciò si intravvede l’idea per cui la filosofia sta, se non del tutto, almeno in parte in uno stile. Uno stile, quello scelto dall’autore, che rifiuta di rinserrarsi all’interno di un canone disciplinare, ma si contamina di un dialogo costante con la letteratura e la poesia. Lo stile della postcritica è quindi innanzitutto improntato a una contaminazione: solo l’intersezione tra discipline consente di far emergere la compenetrazione tra soggetto e mondo. Le discipline da coinvolgere saranno allora moltissime, dalla filosofia all’antropologia, dalla botanica all’architettura. Per rimanere al testo che qui discutiamo, come fanno poesia e letteratura a portarci nel tessuto vivo della materia – lì dove soggetto e oggetto sono ancora indifferenziati? Lì dove il soggetto emerge come esito di un processo di individuazione che produce un’entità individuale (laddove il bi parentetico sta ad indicare che l’individuo è appunto individuato tramite una operatività fluida e in costante movimento)?
Nel capitolo due, il riferimento a due scrittori, Giorgio Manganelli e Clarice Lispector, è un riferimento a due modi antitetici di intendere il linguaggio. Il primo della parola guarda solo alla commistione con le altre parole (tanto che il tessuto linguistico ingloba e congeda il cosiddetto “Autore”), e il significato di ogni singola parola sta solo nella connessione con le altre. Come per lo strutturalismo più rigido, una parola ha significato solo perché rimanda a tutte le altre parole. Presa da sé, la parola non significa nulla. Il linguaggio è inteso nei termini di una struttura da cui non è possibile uscire, pena la caduta nel vuoto dell’indicibile.
L’antitesi rappresentata da Lispector non sta nel fatto che la parola di per sé significa qualcosa, bensì nel fatto che la parola funziona come un amo, che tira a sé la cosa cui si riferisce. Essa non designa né denota, ma indica uno spazio in cui porsi. Per questa ragione, nello stile erratico di Lispector, ci si ritrova in uno scenario composto di innumerevoli elementi eterogenei, che si susseguono senza obbedienza ad alcun ordine narrativo. Ad esempio, nella descrizione di una grotta – grotta che è lei stessa, pesante di sonno che dipinge la grotta – troviamo stalattiti, fossili, pietre, pipistrelli, ragni, topi, ratti, scorpioni, granchi, scarafaggi, cavalli bradi; e tutto questo è messo in parola ma non descritto. Tutto ci è restituito come esperienza istantanea, desiderata “nel suo fluire”, in cui con la parola non si accede ma si accade. E, come Lispector insiste ne La passione secondo GH, non è alla comprensione che porta la parola, quanto all’accadere, ossia a una nuova connessione con le cose che la parola indica pur senza denotare.
Per questo, non è nient’affatto ingiustificato il rimando continuo del libro a Lispector, Spinoza e Deleuze, come se costoro avessero in comune l’intento deliberato di rompere il muro di separazione tra la parola e la cosa. Credo sia per questa ragione che Croce rinviene nell’affetto spinoziano il punto di connessione fra parola e mondo. In fin dei conti, la parola non è altro che l’esito di un rapporto di tocco reciproco tra cose che danno corso a sempre nuove composizioni. Ogni atto di conoscenza passa per una composizione, in un susseguirsi costante di corpi nuovi che si aggregano. Possiamo pensare, ad esempio, ai Quadri specchianti di Michelangelo Pistoletto, che, assieme a coloro che li osservano, costituiscono un assemblaggio unico e irripetibile. Il colore dei vestiti che indosso, una collana dalla forma particolare, una sacca di tessuto da cui si intravedono alcuni libri, l’abbozzarsi momentaneo di una espressione sul volto, sono tutti particolari che si imprimono sulla superficie liscia dell’opera, a costituire un aggregato particellare transitorio.
Questo aggregato di corpi che formano corpi in circostanze transitorie – istantanee, potremmo meglio dire, nell’ottica atemporale che di passaggio suggerisce il libro in riferimento ai lavori di Carlo Rovelli – è appunto l’evidente e riconosciuto lascito spinoziano, che fa da nota dominante nella seconda parte del libro. Spinoza è l’autore che dismette con più radicalità la nozione di sostanza. Ci permettiamo qui di richiamare un’opera cui Croce fa riferimento in alcuni passaggi chiave, cioè Millepiani di Deleuze e Guattari. Ciò che più interessa in questo contesto è la natura spinozista del libro appena citato, esaltata in un paragrafo intitolato Ricordi di uno spinozista I. Qui gli autori squadernano l’alternativa radicale che Spinoza propone all’idea di soggetto. Non c’è alcuna sostanza, che appunto “sta sotto” corpi già sempre identificati. C’è solo un costante aggregarsi e disgregarsi di corpi in movimento.
Quindi, come accennavamo sopra, non si danno confini stabili per le entità, ma solo perimetrazioni di individuali (aggettivo che si fa sostantivo): aggregati che si prestano a una operazione di individuazione. Quello che conosciamo come “soggetto” è in realtà immerso in contesti aggregativi sempre diversi che lo rendono qualcosa di sempre diverso e che per essere individuato presuppone una attività di individuazione. Per dar conto di questa attività, Postcritica utilizza i termini di “ritaglio”, “dettaglio” e “sfocatura”. Quando si individua una data entità, si ritagliano certi dettagli, ovvero, si mettono in evidenza certi legami tra certi corpi e al contempo si tralasciano i suoi altri legami con altri corpi ancora. Ma questo ritaglio non coglie la realtà in modo preciso, bensì seleziona una parte rispetto ad altre parti. Si tratta quindi di una sfocatura, nel senso che coglie una realtà imprecisa, segnata solo da certi legami e privata di tutti gli altri legami con tutte le altre cose. Al di là della natura sfocata di questa attività di ritaglio, conta però che i due termini della relazione che da essa emergono non le preesistono, ma a ben vedere prendono forma proprio nella fase operativa.
Il legame con gli affetti in Spinoza, pur mediati dall’interpretazione deleuziana, è evidente. L’affetto, sostiene Croce, è tutt’uno con il corpo ritagliato; è cioè il suo grado di potenza. Certe combinazioni di corpi possono certe cose, certe altre ne possono altre. La piega originale che l’autore dà a Spinoza è quella di intendere questa potenza come una “collocazione”: l’attività postcritica è quella per cui il corpo, o parte, “prende posizione nell’intrico di cose o corpi mediante cui la materia emerge e si ricombina” (76) e consiste, quindi, nel “sapere cosa fare per combinarsi al meglio” (76). Pertanto, la postcritica si risolve in una “scienza delle composizioni”.
In questo possiamo intravvedere la combinazione della filosofia di Spinoza con la versione postcritica di Rita Felski e quindi la sua fonte primaria, Bruno Latour. Avere a che fare con un oggetto, comporta due passaggi. Primo, costruire una connessione con esso, un legame, cioè formare un corpo nuovo; secondo, registrare sia lo spostamento del nostro corpo rispetto a questo corpo sia l’effetto di movimento determinato rispetto a tutti gli altri corpi. Il fare postcritico inerisce dunque alla produzione di corpi nuovi. Ad esempio, leggere un libro con un’attitudine postcritica, commenta Felski, “è questione di legare, mettere assieme, negoziare, assemblare – forgiare legami tra cose che non erano precedentemente connesse […]. L’interpretazione diventa una coproduzione tra attori, che porta alla luce cose nuove, anziché una continua elucubrazione sui significati nascosti di un testo”[6]. E questo vale non solo per i libri, ma per qualsiasi oggetto con cui si possano creare legami.
Insomma, la scelta del libro è felice: in fin dei conti, questo libro fa postcritica, e lo fa nel tentativo di stabilire una connessione con chi legge, superando il chi della scrittura, il chi della citazione e il chi della lettura. Il chi diventa il concatenamento operativo che cerca di aprire un canale, o meglio, di farsi canale per il passaggio delle potenze degli attori coinvolti. Il corpo evanescente che contiene Deleuze, Lispector e Spinoza, insieme a molti altri, riesce per alcuni istanti, proprio come nel quadro di Pistoletto, non a riflettere la nostra immagine, ma a inglobarci per quel tanto che dura la lettura, con decisi effetti di potenziamento – quantomeno, per quel corpo che qui davanti al computer scrive quanto scrive.