Nella nuova collana “Quodlibet
Ius” questo prezioso volumetto
di Paolo Grossi è un’approfondita
e aggiornata riflessione
sull’universo delle “terre collettive”
che l’A. “coltiva” – è
il caso di dire – da più di quarant’anni,
offrendo un contributo
originale e decisivo al
recupero del tema sia nell’ambito
scientifico che in quello
della disciplina legislativa.
Come si evidenzia attraverso
il sottotitolo, si tratta di
un itinerario e quasi di un diario
personale che ci fa entrare
nell’”officina” dello storico e
giurista fiorentino. Il forte carattere
autobiografico serve a
mostrare – anche ad un pubblico
meno versato nella dimensione
giuridica – la genesi,
l’identificazione e i tanti sviluppi
di una vocazione che nasce
già sui banchi della Facoltà
fiorentina dei primi anni Cinquanta
del secolo scorso. Sono
alcuni civilisti come Enrico
Finzi ad aprire l’orizzonte culturale
e scientifico sul macrotema
delle “cose”, dell’appropriazione,
dell’uso e della valorizzazione
socio-economica,
che troveranno nel contesto
medievale il primo banco di
prova nel corso degli anni Sessanta.
E’ però l’incontro con
l’agrarista Giangastone Bolla
e con il suo “prodigioso ed efficiente
attivismo” (p. 35) ad
offrire a Grossi un osservatorio
straordinario come l’Istituto di
diritto agrario internazionale e
comparato. Operando in stretta
consonanza culturale con i
civilisti italiani più innovatori
e poi in qualità di segretario
dell’Istituto fondato da Bolla,
il nostro A. mise sempre più a
fuoco il tema delle “terre collettive”
come “altro modo di
possedere” per riprendere la
fortunata espressione coniata
da Carlo Cattaneo e resa celebre
da Grossi nella sua monografia
del 1977 sull’”emersione
di forme alternative di proprietà
alla coscienza giuridica
postunitaria”. Da allora una
lunga serie di saggi, di conferenze,
di interventi hanno
sempre più irrobustito la visione
di Grossi e contribuito
in maniera fondamentale allo
sviluppo di centri di ricerca e
di occasioni di incontro attorno
al tema polimorfico degli
assetti fondiarii collettivi.
Per lungo tempo fu come
andare “controvento”, contro
il riduzionismo della civiltà
giuridica borghese che aveva
ingigantito come nessun’altra
la dimensione assolutistica
dell’unico modello proprietario
“possibile”. Il legislatore
postunitario aveva osservato la
miriade di fatti collettivi, locali
e dai tanti nomi, come stravaganti
eccezioni da “liquidare”,
da ricondurre a forza dentro lo
stampo del modello unitario.
Furono alcuni giuristi e politici
tra Otto e Novecento (Venezian,
Zucconi, Tittoni, per es.)
a problematizzare il contesto
sociale, economico, giuridico
e politico delle terre collettive.
Queste “reliquie” non sono
gravami della proprietà individuale
ma antiche forme di
convivenza e di sopravvivenza
di intere comunità agro-silvopastorali.
Non, dunque, un
mondo di ieri, ma un mondo
da recuperare e da valorizzare.
Nonostante questi segnali
positivi, bisogna attendere la
Costituzione italiana – e soprattutto
la sua lenta e difficile
attuazione – per trovare un
contesto di pluralismo giuridico
efficiente in grado di segnalare
soluzioni differenti.
Grossi indica alcuni passaggi
normativi (1985, 2004) che
mostrano una nuova consapevolezza.
Il tema delle terre
collettive si inserisce sempre
di più nel dibattito e nel contesto
istituzionale della tutela
dell’ambiente e del paesaggio,
con un rinnovato sostegno
scientifico e alcune importanti
testimonianze della Corte
Costituzionale. Il rapporto tra
l’uomo e la cosa, l’uomo e la
natura cambia segno. Una diversa
antropologia sorregge
la dimensione comunitaria
e “rei-centrica” degli assetti
collettivi.
La riflessione termina sulla
legge 168 del 2017 frutto, senza
dubbio, di un legislatore che sa
essere provvido e sa cogliere
gli esiti migliori di un dibattito
ormai decennale. Una legge
capace di “riconoscere” ciò che
esiste da tempi immemorabili
senza costringere gli “ordinamenti
primari” in schemi che
negano alla radice il significato
più profondo delle “terre
collettive”. Nel contesto di un
dibattitto contemporaneo su
“beni comuni” e nuove forme
di “proprietà” (fondamentali
ma da tenere ben distinti dai
beni collettivi), Grossi conclude
la sua ricostruzione con un
auspicio, che vorrebbe essere
certezza: “resti acquisito alla
nostra consapevolezza che gli
assetti fondiarii collettivi, nella
loro variegata multiformità
(che va dalle robuste comunità
proprietarie alla tenue consistenza
del semplice uso civico)
contribuiscono non poco
alla complessità del paesaggio
socio-economico-giuridico
della Repubblica e, quindi, ad
arricchire il suo complesso
edificio” (p. 97).