La maggior parte dei libri pubblicati in italiano sul pensiero di Giorgio Agamben esordiscono ammettendo di essere stati preceduti di circa un decennio da importanti studi usciti in altre lingue, principalmente in inglese, francese e tedesco. Solo recentemente (a partire più o meno dal 2013) una serie di pubblicazioni sul filosofo di Homo sacer ha interessato anche la lingua italiana andando a colmare un’importante lacuna (almeno nell’editoria) dal momento che la stessa opera aveva trovato ampio spazio all’estero sin dai primi anni 2000.
Giorgio Agamben. Ontologia e politica, curato da Valeria Bonacci, si inserisce in questa serie apportandovi nuovi elementi e facendo in qualche modo da ponte fra la ricezione italiana del pensatore romano e quella internazionale. Il libro si compone, infatti, della traduzione italiana di una selezione di rilevanti scritti pubblicati in varie lingue in un periodo che va dal 1991 al 2017, e da tre interventi inediti dello stesso Agamben: una risposta alla lettura di Alain Badiou di La comunità che viene attorno alla nozione di singolarità, un carteggio con Bernard Aspe e Muriel Combes sul tema della testimonianza e un’intervista con Aliocha Wald Lasowski che chiude il libro.
La traduzione, come si sa, è terreno di incontro per eccellenza, e così molti di questi studiosi sono a loro volta traduttori di Agamben nelle loro lingue di origine, mentre i filosofi italiani presenti nella raccolta, Carlo Salzani, Emanuele Coccia e Andrea Cavalletti per citarne alcuni, hanno pubblicato inizialmente, come in un gioco vorticoso, i loro interventi in altre lingue, per poi ritradurli in italiano.
Se dico questo non è per assecondare lo sciovinismo imperante di oggi, ma per evidenziare una difficoltà inerente alla lingua che non vorrei nascondere ma con cui vorrei, anzi, iniziare la lettura di questo importante volume. Una difficoltà che non è una divagazione, ma che ci conduce direttamente nel cuore del pensiero di Agamben. Nota a tutti gli studiosi del filosofo, tale impasse si può formulare pressappoco in questi termini: perché è così difficile parlare di Agamben? Perché è così difficile parlarne in italiano, la lingua in cui egli scrive?
Il corposo libro in questione si articola in tre sezioni che corrispondono grossomodo ad altrettante aree di interesse della ricerca agambeniana, le quali non sono isolate fra loro, ma si rimandano l’una con l’altra: ‘Potenza e linguaggio’, ‘Stato di eccezione e dispositivi di governo’, e infine ‘Forma-di-vita, inoperosità e uso’. È evidente, per chi conosce anche solo superficialmente tale ricerca, che queste tre aree possono essere viste all’incirca come tre suoi diversi momenti: le prime opere, la serie Homo sacer e il suo approdo alla forma-di-vita e all’uso, ma occorre ribadire che tali ‘momenti’ devono essere visti come immersi in «un va e vieni» (dice lo stesso Agamben a p. 550) fra l’ontologia e la politica, che li qualifica come i poli di un campo di tensioni.
È per questo che Giorgio Agamben. Ontologia e politica si compone di tante trame e livelli di lettura, alcuni dei quali proveremo a seguire senza la pretesa di essere esaustivi. Riprendiamo la domanda iniziale: innanzitutto, perché è così difficile parlare in generale? Come evidenziano i primi saggi (della prima sezione) di questo volume firmati da Daniel Heller-Roazen e da Kevin Attell, Giorgio Agamben si è occupato spesso del linguaggio umano mettendone in luce le aporie di fondo. Una di queste consiste nel fatto che il linguaggio è qualcosa che eccede costantemente i soggetti che lo parlano: gli esseri umani nascono in-fanti (non-parlanti) e devono poi apprendere il linguaggio entro una certa età, un linguaggio che evidentemente non hanno inventato loro ma che ereditano dalla tradizione culturale in cui sono nati. Questo significa che l’atto di dire ‘io’, cioè di parlare e situarsi nel linguaggio, racchiude qualcosa di paradossale. Il soggetto del linguaggio può essere tale, infatti, solo costituendosi in un’insanabile frattura: quella fra la propria (presupposta) singolarità che resta indicibile e un linguaggio che si presenta come una grammatica di regole astratte. Gran parte della filosofia agambeniana, come emerge chiaramente dalla lettura del volume, tenta di focalizzare questo punto cieco della riflessione sul linguaggio ponendolo in relazione alla speculazione ontologica e politica.
In merito a ciò Heller-Roazen mette in guardia il lettore sulla problematicità della scrittura agambeniana che ha di mira un oggetto particolarmente ostico: qualcosa che non è possibile catturare con la scrittura. Questo oggetto che «non è mai stato scritto» è la voce. La problematica della voce mostra, nell’analisi di Agamben, contorni che sono allo stesso tempo linguistici e ontologici. L’aspetto linguistico riguarda la definizione di che cosa sia la ‘voce’ in rapporto al linguaggio umano: un mistero così fitto da impegnare pensatori da Aristotele a Benveniste. L’aspetto ontologico, invece, chiama in causa la voce che, dal punto di vista dell’enunciazione dei discorsi, appare come l’‘esserci’ del linguaggio, la sua esposizione. Da questo punto di vista Heller-Roazen è estremamente cosciente che una delle novità più dirompenti della filosofia di Agamben è il tentativo di evidenziare non il detto o il non-detto, ma il piano del ‘dicibile’, che un tempo ha avuto una tradizione filosofica nobile. Soprattutto emerge qui un certo platonismo di Agamben che era rimasto quasi in ombra.
Lo scritto di Kevin Attell segue da vicino il precedente. Esso si sofferma sul complesso rapporto fra Derrida e Agamben, dato dal continuo distanziamento di quest’ultimo dalla mossa grammatologica. La questione è ancora una volta quella del rapporto fra la voce e il segno, in particolare quello scritto, il gramma. Derrida vedeva nella grammatologia la via per superare la metafisica dellogos, la cui presenza è attestata dalla voce (phoné). Al contrario Agamben ha buon gioco nel mostrare filologicamente come già a partire da Aristotele, il gramma faccia pienamente parte del progetto metafisico e come la voce non si iscriva affatto, in quanto tale, nel logos. A ben guardare Aristotele, e con lui i linguisti medievali, sostiene che non tutta la voce vi si iscrive, ma solo la ‘voce articolata’ cioè quella voce composta di lettere che si può scrivere. L’altra voce, il suono inarticolato, il rumore, il verso animale, non entra propriamente nel linguaggio, ma lo fa solo cancellandosi. Il linguaggio insomma si fonda sulla frattura della voce, e non sulla voce in quanto tale. La lingua che parliamo (questa è la difficoltà della parola) nega la stessa voce con cui parla. Una problematica il cui sviluppo si snoda dai primi scritti fino alle opere più recenti di Agamben, e che affiora in tutta la prima sezione del libro in oggetto.
La domanda iniziale, però, interrogava anche qualcos’altro: perché è difficile parlare di Agamben in italiano? Proprio nella lingua in cui meno si dovrebbero presentare problemi di interpretazione. Questa difficoltà è frutto del caso o del tipico provincialismo culturale del nostro paese? Ho l’impressione che ci sia qualcosa di più serio delle, pur vere, ristrettezze culturali italiane. La risposta ci guida dalla prima alla seconda sezione.
La prima sezione si chiude con un saggio di Carlo Salzani (autore anche di un altro intervento sulla nudità) che mostra, in modo mirabile, il ruolo del ‘messianismo’ di Kafka, letto da Benjamin, nel pensiero di Agamben. Prima di questo importante intervento compare un saggio di Alex Murray che evidenzia come nelle Glosse in margine che Agamben scrive a partire dai Commentari sulla Società dello spettacolo di Guy Debord, si parli esattamente della situazione italiana. L’Italia è stato un importante laboratorio mondiale in cui alla rivoluzione che investiva il paese negli anni ’70 non si è risposto alla vecchia maniera come in Grecia o in Cile, cioè con una dittatura militare. Nell’impossibilità di percorrere questa strada il potere ha elaborato una strategia spettacolare-securitaria del tutto inedita. Quasi gramscianamente il potere ha mirato a impossessarsi della produzione di immagini attraverso lo spettacolo per poter dominare l’immaginario politico che esprimeva una certa radicalità. Accanto a tale tecnologia che impedisce di immaginare qualcosa che non sia lo spettacolo stesso, se ne è sviluppata un’altra basata sulla paura per il cosiddetto ‘terrorismo’ interno che ha prodotto una serie di leggi speciali che sostanzialmente hanno abolito le libertà democratiche per introdurre un dispositivo governamentale. Agamben stesso descrive, in Mezzi senza fine, la sua situazione nel contesto italiano di intellettuale estraneo allo spettacolo come un ‘esilio’.
Nella seconda sezione del volume, una vicenda analoga viene descritta da Kazumi Takakuwa nel Giappone odierno che recentemente ha visto lo stato di diritto nato all’indomani della catastrofe nucleare (sopportata solo grazie all’invenzione dell’arte dell’‘intrattenimento’) venire sospeso con la scusa delle minacce militari da parte di potenze straniere. Allo stesso modo Adam Kotsko racconta la situazione attuale degli Stati Uniti che hanno finito paradossalmente per sospendere la propria democrazia con la pretesa di difenderla, sospensione che – scrive Daniel McLoughlin – aveva iniziato a diffondersi già a partire dal primo conflitto mondiale.
In breve si può ipotizzare che il modello italiano, che è passato dalla rivoluzione degli anni ’70 al consumismo degli anni ’80 quasi senza colpo ferire, abbia contribuito in modo determinante alla costruzione dell’odierno modello governamentale che si è diffuso globalmente. Se così fosse la difficoltà di parlare di Agamben in italiano giace nella difficoltà stessa di una civiltà – l’occidente – di guardare verso l’origine dei paradigmi che la governano. Una difficoltà con cui, lo vedremo anche più avanti, il pensiero di Agamben si confronta sin dai suoi primi esordi.
Nello spostamento dall’aspetto linguistico a quello politico, l’attenzione si rivolge in particolare all’economia e al governo. In questo cambio di prospettiva alla problematica della voce e dell’indicibilità, corrispondono punto per punto quelle della vita e dell’eccezione. La vita, infatti, si trova ‘presa’ nella politica così come la voce nel linguaggio e in questa ‘cattura’ essa si trova sdoppiata in una zoé naturale e una nuda vita che fa da fondamento muto della politica e del diritto. La nuda vita appare così come il principale prodotto della sovranità statale. L’intervento di apertura è in questa sezione quello di Mathew Abbott il quale chiarifica in che senso la politica di Agamben può dirsi ontologica. Il filosofo italiano, collocandosi nel solco di Martin Heidegger, analizza l’essere nella sua fatticità, vale a dire nella sua esistenza. Per l’essere umano tale esistenza fattizia è evidentemente quella linguistica e politica. Viceversa i dispositivi politici ed economici (di cui Bruno Karsenti e Anton Schütz studiano l’origine mistica e teologica) affondano le proprie radici in strutture metafisiche che risultano incomprensibili senza un approccio filosofico. La nuda vita (come la voce) trova il suo modello sul piano ontologico nella ‘sostanza’ la quale, nella metafisica aristotelica, subisce uno sdoppiamento che la fa apparire come una sostanza prima che si può solo indicare senza poterla dire, e una sostanza seconda grazie alla quale si può parlare. Emanuele Coccia è molto abile nel mostrare come la ‘singolarità’ sia il nome che il problema dell’esserci assume in politica.
Sapientemente è stato posizionato in chiusura della seconda sezione il saggio di Thanos Zartaloudis il quale affronta un tema quanto mai attuale (si pensi alla drammatica situazione in Siria): il nesso fra violenza e potere sovrano. Il punto di partenza è qui lo scritto di Walter Benjamin Per la critica della violenza il quale mostra il nesso costitutivo fra violenza e diritto, tanto come violenza che istituisce il diritto, quanto come violenza che lo preserva. Questa lettura benjaminiana ha avuto un ruolo che non può essere sottovalutato nell’interpretazione agambeniana di Schmitt e dello stato di eccezione come ‘origine’ del diritto. Il saggio enuclea molto bene anche il tema cruciale della possibilità di una violenza ‘pura’, cioè una violenza ‘destituente’ che non dà origine a nuovo diritto, ma che lo depone. Questo aspetto proietta il lettore direttamente nella terza sezione che affronta il tema della forma-di-vita e dell’uso, che è forse l’elemento di maggior novità del libro.
Oltre ai vari meriti già elencati, infatti, Giorgio Agamben. Ontologia e politica ne ha uno particolare: quello di rovesciare il rapporto fra la ricezione italiana e quella internazionale di cui parlavamo in apertura. Allo stato attuale, sembrerebbero alcuni studi in lingua italiana a trovarsi in una posizione più ‘avanzata’ rispetto a quelli editi in altre lingue, basti pensare che nonostante Altissima povertà e L’uso dei corpi siano ormai disponibili in molte lingue da diversi anni, le monografie internazionali su Agamben continuano a tergiversare sul tema della sovranità o addirittura su interpretazioni estetiche evitando la (tanto attesa) trattazione della forma-di-vita e i temi a essa connessi come l’uso o l’inoperosità. Con ciò si vuole solo ribadire che quando si ha a che fare coi paradigmi tali mancanze non possono apparire casuali, ma anzi vanno iscritte nella medesima difficoltà di una cultura a mettere a fuoco i propri archetipi di cui abbiamo parlato sopra.
La terza sezione, dunque, è interamente dedicata alle nozioni di uso e inoperosità. La mossa di rilievo di Agamben, che lo colloca fra i maggiori filosofi contemporanei, è che idee come ‘uso’, ‘gesto’, o anche quelle più esplicitamente politiche come ‘anarchia’ o ‘forma-di-vita’, non sono obiettivi da realizzare, bensì qualcosa che già esiste nell’immediatezza della vita e che però, come particelle subatomiche, sono estremamente volatili e vengono catturate quasi subito dai dispositivi. A ben guardare l’‘uso dei corpi’ è semplicemente il vivere, e i corpi non hanno da raggiungere o conquistare il ‘gesto’, ma vivendo essi gesticolano. Un corpo vivo ègesti e voce, ed essi non hanno alcuno scopo od obiettivo. Sono solo l’esser-così delle creature che Emanuele Dattilo chiama ‘irreparabilità’ e van der Heiden ‘contingenza’: una vita che non si separa mai dalla sua forma. Il problema ontologico-politico diviene semmai come esporre tale uso e tale inoperosità dei corpi senza che essi vengano presi e separati nei dispositivi giuridici o governamentali. È questo il filo conduttore dei due mirabili interventi di Andrea Cavalletti da cui abbiamo tratto queste riflessioni.
A proporre un abbozzo di risposta è lo scritto della curatrice Valeria Bonacci (che è anche in gran parte traduttrice del libro e autrice della prefazione) che indica nell’uso abituale (la hexis greca e l’usus francescano) quel terzo che si frappone fra la vita e la politica, così come fra la potenza e l’atto, non per articolarli, ma per metterli a contatto aderendo a entrambi ed esponendo il vuoto fra essi. Una direzione verso cui si muove anche il saggio di Matìas Saidel. È nell’uso di sé che si sperimenta la vita comune, il come della forma-di-vita.
Lo studioso inglese William Watkin, invece, fornisce importanti indicazioni su nozioni ricche di sviluppi come quelle di ‘segnatura’ e di ‘paradigma’, con cui ci avviamo verso la conclusione. La nozione di ‘segnatura’, discussa ampiamente, è stata riscoperta da Foucault nell’episteme rinascimentale. Essa indica un tipo di conoscenza analogica estranea al pensiero scientifico, ma non per questo priva di efficacia. La segnatura, nell’interpretazione che Agamben riprende da Enzo Melandri, è un elemento che si colloca fra il segno e il significato e che permette la trasmissione del senso da un ambito a un altro, dando letteralmente ‘leggibilità’ al segno. In tal senso è grazie alle segnature che l’archeologia filosofica può, ad esempio, seguire la nascita dei concetti economici moderni nella teologia medievale. L’archeologia filosofica, nella sua ricerca dell’arché come punto (immemorabile) di insorgenza, prende di mira i paradigmi, i quali, raccogliendo degli ambiti fenomenici, vanno per così dire ‘dal particolare al particolare’ e istituiscono ambiti che possono ‘diagonalizzarsi’ (Badiou) da un campo all’altro della conoscenza.
Tutto il volume – non sarebbe potuto essere altrimenti – è percorso dalla domanda sull’urgenza dell’archeologia filosofica. Di tale esigenza si può dire che sia in relazione col ‘mistero’ che ancora oggi circonda la politica e l’economia, e che mette in guardia sulla presunta ‘razionalità’ della nostra società, intesa come perfetta trasparenza a sé stessa. È invece l’opacità del fondamento a richiamare l’archeologia. Il fatto che ciò che fa da fondamento agli archetipi è qualcosa che sprofonda e su cui la ragione fatica a tenere fisso lo sguardo, come le telecamere dei liberatori che non riuscirono a inquadrare i ‘musulmani’ che ancora vagavano per i campi di sterminio appena liberati. Che l’odierno mistero del ‘governo’ (Karsenti) o del ‘neoliberismo’ (Kotsko) sia la schiavitù di massa su cui essi oscuramente si reggono, o che la luminosa ‘macchina antropologica’ (che Agamben riprende da Jesi) sia solo l’eco dell’annichilimento dell’animale che l’uomo si porta dentro, sono esempi delle opacità con cui l’archeologia ha da confrontarsi.
Fra i molti elementi di questo libro meritevoli di essere sviluppati, certamente vi è l’esigenza dell’archeologia filosofica. Il potere oggi si presenta eminentemente come forma paradigmatica che governa restando nascosta: esso si configura come l’habitat, il «milieu» (dice McLoughlin a p. 266), in cui operiamo quotidianamente. In situazioni ordinarie, tale forma di potere non solo è sul piano empirico del tutto invisibile, ma dà anche l’illusione al soggetto di muoversi nella più ampia autonomia. In questa configurazione che trova nell’efficienza la sua cifra, solo uno sguardo che sappia individuare gli archetipi può aspirare a sfuggirgli. La politica come «modello di inoperosità» (Agamben p. 554) vive nella destituzione dei dispositivi.