Forse non è un caso che il libro che raccoglie
buona parte dei saggi e prefazioni scritte da
Gianni Celati a partire dagli anni Novanta,
con l'emblematico titolo Narrative in fuga, si
apra con Bartleby lo scrivano di Melville. Il suo
"I would prefer no" risuona in tutto il volume
con un'evidenza che non si ritrova in nessuno
degli scrittori italiani, e probabilmente anche
europei. "Avrei preferenza di no", come con
una tornitura traduce Celati, è sicuramente il
motto che bisognerebbe scrivere sul suo emblema araldico. Celati ha fatto quello che tanti scrittori non fanno mai: dire di no. Ha lasciato il posto all'università italiana e se ne è andato ad abitare fuori dai nostri confini linguistici, in Inghilterra, a Brighton, da dove manda i suoi messaggi in bottiglia. Egli è probabilmente il maggior innovatore nella narrativa italiana degli ultimi
quarant'anni. Il suo rinnovamento è all'insegna
proprio della "preferenza di no". Bartleby è il
personaggio che mette in crisi uno dei baricentri della nostra esistenza di occidentali: l'abitudine. Sono i ragionevoli accordi, come li chiama
Celati, su cui si reggono i nostri rapporti con gli
altri. Il cambiamento innestato nella letteratura
dallo scrittore emiliano, come aveva già capito
Calvino, è quello di prendere partito per l'esteriorità, per il mondo esterno e non più per il
mondo interno.
Bartleby è l'uomo delle "preferenze", per cui
"nelle singolarità dell'individuo si dissolvono le
generalità della norma": la ratio della legge e
dell'utilitarismo non hanno più presa su di lui,
perché inerme. Nei saggi dedicati all'invenzione dell'America e degli americani (Mark Twain
e Jack London) Celati mette a fuoco cos'è avvenuto non solo nella lingua, e proprio grazie alla
lingua stessa, nella testa di quella popolazione
da cui dipendiamo, nolenti o volenti, noi tutti.
Non si parla qui di Donald Trump, ma è come se
Celati lo facesse, poiché mette a fuoco il fallimento dell'idea di democrazia in quel paese. Il
capitolo fondamentale del libro s'intitola Storie
di solitari americani. Usando Wakefield, mirabile racconto di Hawthorne, sottolinea come la società non sia nient'altro che un sistema di relazioni dove tutto sta insieme «entro margini fissati dalla reciprocità dei comportamenti; ma appena fuori da quei margini l'individuo diventa
un'entità astratta e derisoria, un atomo di mortalità». Il protagonista se ne va di casa, scompare,
e vive il resto della vita nella casa di fronte osservando la propria famiglia da fuori. Hawthorne,
Melville e Poe raccontano storie di estraniamento.
Quello che autori come London, Anderson,
Hammett e Hemingway hanno raccontato è
l'angoscia d'essere esposti all'estraneità del
mondo. Le stesse fughe dall'ordine sociale, come appare nel cinema americano degli ultimi
cinquant'anni, sono «miraggi ormai scaduti»,
scrive Celati, rovesciando tutto quello che ha
scritto sino a quel punto nel suo saggio. Ma non
è proprio un rovesciamento poiché oggi è l'abitudine l'unico terreno abitabile con l'ovvietà della sua routine quotidiana. In questo passaggio riconosciamo l'autore di Narratori delle pianure e
di Verso la foce. Il Celati politico è quello che fa
proprie le osservazioni di Tocqueville, che in La
democrazia in America racconta come l'uguaglianza abbia portato in quel paese a una uniformità di opinioni e comportamenti, producendo
così l'opposto della libertà di pensiero, «dal momento che è impellente la necessità di conformarsi alla maggioranza dove ognuno deve tenere d'occhio gli altri». L'effetto, scrive, è un livellamento generale in cui l'individuo scompare nella folla.
Nei personaggi di Poe e Melville la solitudine
diventa un'anticipazione della morte. In modo
fulminante Celati vede la traduzione di questo
personaggio in quella del solitario perverso e cogitabondo, ovvero nel killer patologico di mille
film. Il solitario è diventato "l'uomo nero" per
spaventare i bambini, "segno invertito di
quell'inferno che è la vita americana".
Narrative in fuga non è però solo un libro politico, ma anche un libro poetico. Basta leggere le
pagine dedicate a Stendhal, alla felicità del vivere o quelle in cui compare Céline, di cui Celati è
stato uno dei primi traduttori quando lo scrittore francese era al bando per il suo fascismo e antisemitismo. Celati vi presenta proprio i romanzi dedicati alla fuga di questo collaborazionista
verso la Germania nazista nei giorni del crollo finale del Reich. Un grande amore per Céline il
suo, prodotto oltre che dalla scrittura anche
«dalla fine dell'aureola della genialità dell'artista a favore delle debolezze del malato, delle tare di famiglia, delle miserie piccolo-borghesi».
La parte finale del volume è una appassionata ricostruzione dei motivi di Michaux, Perec e
Flann O'Brien, di Joyce, di cui Celati ha tradotto
l'Ulisse, e di Swift, di cui ci ha dato una versione
dei Viaggi di Gulliver. Un libro da leggere e meditare, perché di scrittori così non ce ne sono molti.