Recensioni / Benvenuti nel deserto del reale

Estratto dalla postfazione di Andrea Cortellessa a André Schiffrin, Editoria senza editori.

Adesso ti dico perché sei qui. Sei qui perché intuisci qualcosa che non riesci a spiegarti, senti solo che c’è; è tutta la vita che hai la sensazione che ci sia qualcosa che non quadra nel mondo… che cos’è? Matrix è ovunque, è intorno a noi; anche adesso, nella stanza in cui siamo. È quello che credi quando ti affacci alla finestra, o quando accendi il televisore… è il mondo che ti è stato messo davanti agli occhi per nasconderti la verità”. Così si rivolge Morpheus (Lawrence Fishburne), il capo della Resistenza dalla testa pelata, gli occhiali a specchio e lo spolverino di pelle, al nuovo adepto Neo (Keanu Reeves), confuso nerd perseguitato da disturbi percettivi e sogni che non riesce a comprendere. “Quale verità?” “Che tu sei uno schiavo, Neo. Come tutti gli altri, sei nato in catene; sei nato in una prigione che non ha sbarre… una prigione per la tua mente… Dovrai scoprire coi tuoi occhi, che cos’è”. Gli stende davanti le mani aperte. “Pillola azzurra, fine della storia: domani ti sveglierai in camera tua, e crederai a quello che vorrai; pillola rossa, resti nel Paese delle Meraviglie; e vedrai quant’è profonda la tana del Bianconiglio”. Senza esitare Neo prende la pillola rossa. “Benvenuto nel deserto del reale”, gli dice allora Morpheus: nel rivelargli finalmente il mondo reale, appunto, al di là della mistificazione in forma di software immersivo che sino a quel momento ha tenuto Neo, come miliardi di altri terrestri, dietro il velo di Maya dell’inganno: un paesaggio in rovina dominato dalle Macchine, in cui dispositivi automatizzati hanno reso schiavi gli esseri umani; li allevano, anzi, come carne in batteria.
The Matrix, la fantasmagoria tecno-gnostica dei fratelli Wachowski, risale a vent’anni fa, 1999. Lo stesso anno usciva in Francia – beh, accolto da un’audience di diverse proporzioni – L’Édition sans éditeurs: cui (proprio come al primo Matrix, però) terranno dietro ben due sequels: Le contrôle de la parole nel 2005 e L’argent et les mots nel 2010 (in Italia i primi due sono stati tradotti da Bollati Boringhieri, rispettivamente nel 2000 Editoria senza editori e Il controllo della parola nel 2006, e il terzo nel 2010 da Voland, col titolo Il denaro e le parole). Ma, sempre come in Matrix, al di là degli esempi (che nel secondo episodio illustrano come anche in Europa si siano nel frattempo diffuse le pratiche editoriali e commerciali denunciate da Editoria senza editori nel mercato statunitense; e che nel terzo provano a formulare ipotesi construens, insistendo in particolare sul controesempio rappresentato dalle buone pratiche adottate sin dagli anni Sessanta in un contesto del tutto particolare, certo, come quello norvegese) la sua “narrazione” resta coerente dall’inizio alla fine: impostata com’è sulle fondamenta poste nel primo libro: allo stesso modo della saga dei fratelli (ora sorelle) di Chicago, da quella scena madre da cui ho preso le mosse. […]
Nel presentare Editoria senza editori al pubblico italiano, Alfredo Salsano impiegava un paio di volte la metafora che mi ha fatto venire in mente il deserto del reale: anche in Italia “l’editoria manageriale parla di razionalizzazione per lo sviluppo ma in realtà produce qualcosa come una desertificazione”. Un termine, proseguiva Salsano, impiegato in “analogia con quanto i grandi gruppi della biochimica realizzano nel campo dell’industria agroalimentare: dopo alcuni anni di uso di pesticidi e di concimi chimici su monoculture di cui si detiene il controllo delle sementi, il suolo si isterilisce e lascia il posto al deserto”. La metafora “verde” della catastrofica riduzione della “biodiversità” in corso verrà fatta propria, qualche anno dopo, da una Dichiarazione internazionale degli Editori indipendenti per la tutela e la promozione della Bibliodiversità pronunciata a un consesso parigino del luglio 2007, e tradotta in testa a un numero che alla fine di quell’anno facemmo della rivista “il verri”, intitolandolo proprio Bibliodiversità (e comprendente anche un testo dello stesso Schiffrin, destinato a confluire nel Denaro e le parole).
In quella seconda metà di anni Zero, e nel primo scorcio del decennio seguente, questa discussione era giunta al calor bianco: e davvero sembrava si fosse all’alba di una presa di coscienza collettiva. Pareva insomma che tutti avessimo ingerito la Pillola Rossa propinataci da Morpheus-Schiffrin. Con l’approvazione bipartisan, nell’estate del 2011, della legge scritta da Ricardo Franco Levi, che fissava uno sconto massimo del 15% nelle librerie di catena (una delle technicalities sulle quali, allora, più ci si accaniva) – quella discussione, così astrusa e difficile da “raccontare” a un pubblico di non addetti ai lavori (se ne lamentava lo stesso Schiffrin nel Controllo della parola), pareva all’improvviso balzata – per qualche magico effetto davvero da Bianconiglio – dall’iperuranio delle un tempo gloriose riviste d’avanguardia alla rumorosa koinè delle più “generaliste” agende economico-politiche. Una messe di iniziative in difesa della Bibliodiversità (cioè, in concreto, per i diritti dei lavoratori nel comparto dell’editoria, per un codice etico da sottoporre ai lettori, la valorizzazione virtuosa del sistema bibliotecario, la salvaguardia di librerie e case editrici indipendenti, eccetera) spuntavano allora come funghi in tutte le contrade, a loro volta alimentando una discussione infinita nei mille rivoli dei lit-blog nella loro fase di più espansiva, anarchica euforia comunicativa: ma spesso riuscendo altresì a “bucare” il muro di gomma dell’informazione appunto generalista. Fu quello un momento di cittadinanza attiva, e diciamo pure di impegno politico, che vedeva molti di noi per la prima volta avvertire, con un senso di euforica incredulità, che le proprie competenze specialistiche – per anni coltivate in silenzio, alla stregua d’una perversione privata – davvero servivano a qualcosa. Ed era stato proprio Schiffrin – questo intellettuale così elitario e poco incline a gesti scomposti – a mostrarci come quel settore della società, così appartato e geloso delle proprie prerogative, si mostrasse all’improvviso chiamato a difendere i diritti di tutti.
Era il tempo (ricordo, per mera comodità e a titolo d’esempio, iniziative cui presi parte in prima persona; ma ciascuno degli addetti ai lavori, di allora e di adesso, potrà allungarne l’elenco a piacimento) delle Classifiche di Qualità di Pordenonelegge (aprile 2009), del Manifesto del movimento “TQ” sull’Editoria (aprile 2011), dei numeri speciali dedicati al tema da “alfabeta2” (ottobre 2011 e maggio 2012). Prese il titolo dal primo pamphlet di Schiffrin persino un documentario low budget, prodotto da Rai Cinema, che realizzai nel 2009 insieme a Luca Archibugi e che uscì la primavera seguente col titolo Senza scrittori. Anche in quell’occasione, con “visibilità” oggi inconcepibile, lo accolsero discussioni a non finire.

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Sicché – devo confessare, qui, un mio colpevole snobismo – mi parvero fantascientifici, è il caso di dire, gli alti lai cui all’improvviso i suddetti media prestarono risonanza sul finire del 2015: quando l’attore già iper-dominante sul mercato editoriale italiano, il gruppo Mondadori, proditorio acquistò la maggioranza del suo principale concorrente, Rizzoli, dando così vita a un Moloch subito felicemente battezzato, con fonosimbolismo tanto vago quanto ovvio, “Mondazzoli”. Parlava in me (o meglio, finalmente taceva) il Neo già “risvegliato” da un pezzo. Possibile che ci si svegliasse, appunto, solo allora? Dov’era dieci anni prima l’ultraottantenne Umberto Eco che investiva personalmente in una nuova intrapresa editoriale, La nave di Teseo, polemicamente creata dai transfughi in rivolta della Bompiani (peraltro sottratta all’impero Mondazzoli, pochi mesi dopo, da una tardiva e gattopardesca sentenza dell’Antitrust)? Ricordo che Elisabetta Sgarbi, editor della nuova casa editrice corsara, quando otto anni prima era stata interpellata da quel vecchio numero del “verri”, non aveva trovato di meglio che ironizzare sui crucci di quei letterati amateurs che nulla potevano capire, poveretti, del “mondo adulto” dell’editoria “vera” (quello in cui, ha insegnato per tempo Paolo Conte, “si sbagliava da professionisti”).
Cos’è rimasto oggi, di quelle battaglie? Verrebbe da dire solo la cenere: quella che alita, in un silenzio di tomba, sul deserto di Morpheus. Quella che ci era parsa un’alba si è rivelata un tramonto. […] Non c’è bisogno di abrogarla, da noi, una legge scomoda. Basta non applicarla. È stato l’Antitrust a far notare come in effetti il core business della legge sia stato di fatto disinnescato da un apposito decreto governativo, in tutta fretta introdotto un paio di settimane dopo. La sognata rivoluzione bibliodiversa non è stata soffocata con un bang, ma con un whimper (lo prevedeva con grande lucidità Ilaria Bussoni sullo speciale alfalibro di “alfabeta2”, maggio 2012). Mentre scrivo è in discussione in Parlamento una nuova legge sulla “promozione della lettura” – quella che vede prima firmataria la senatrice Flavia Piccoli Nardelli – che però, dati questi precedenti, non lascia troppo sperare. E in silenzio, alla fine del ’13, se n’è andato pure lui, Schiffrin.
Si vuole un esempio, di questa controrivoluzione morbida? (era stato un suo amico e complice, Pierre Bourdieu, poco prima di andarsene a sua volta nel 2002, a parlare, a proposito di Editoria senza editori, di una “rivoluzione conservatrice nell’editoria”). Una delle formule più polemiche di Schiffrin è quella della “censura del mercato” (da lui ripresa, peraltro, da un articolo di “El País”), in base alla quale l’ideologia (travestita, come sempre in questi casi, da atteggiamento post-ideologico) del profitto su ogni singolo titolo – sostituitasi, spiega nel dettaglio Editoria senza editori, all’economia di sistema in virtù della quale in passato, possiamo parafrasare noi, era la commedia all’italiana a finanziare Antonioni e Fellini; e lasciamo perdere il post-ideologicissimo snobismo che oggi antepone la prima ai secondi… – fa sì che “i nuovi talenti o i punti di vista originali e critici difficilmente trovano il loro posto nelle grandi case editrici”. Vale a dire, proseguendo la parafrasi, che oggi un Antonioni non si vedrebbe prodotto neppure un cortometraggio. Si levò, allora, una selva di scudi: Esagerazioni (intollerabilmente) mandarinesche! Atteggiamento (orribilmente) didattico! Anatemi (appunto) ideologici!
D’altra parte il saggio di cui più si è discusso nell’ultima annata, La letteratura circostante di Gianluigi Simonetti (il Mulino 2018), cos’è se non la registrazione gelida del tramonto della “letteratura in senso forte”, altrimenti liquidata come “la letteratura di una volta”? Parliamo di quella letteratura che (sintetizza ancora Simonetti) “ambisce a plasmare le coscienze e interpretare il mondo […] attraverso una configurazione formale specifica e irriducibile, uno stile personale, un determinato e accorto […] uso della lingua”. Oggi quella letteratura – quella che mi ostino a considerare la letteratura, cioè – è messa completamente all’angolo dalla simulazione, dalla contraffazione della letteratura che è la fiction usa e getta, sempre più affannata a inseguire giusto gli stereotipi delle fiction televisive (e che in effetti non vede l’ora di trasformarsi in una di esse), scimmiottando “linguaggi estetici potenti e affascinanti, ma relativamente poveri di ambizioni alla profondità, votati soprattutto al divertimento”: un’“estetica del flusso” – la definisce sempre Simonetti – che, per esempio, cede le armi di fronte all’egemonia della serialità che torme di cattedratici à la page si affrettano a indicare quale forma delegata del contemporaneo, così dipingendo come obsoleta anticaglia modernista l’idea di un’opera-unicum, fine e causa di se stessa, universo autotelico e che, proprio per questo, può rivaleggiare col mondo “circostante” sino a rispecchiarlo: come uno specchio ustorio, magari. Oggi è invece il mondo circostante che ha carbonizzato le ipotesi di alterità cui l’arte, per la parentesi neppure troppo breve che chiamiamo modernità, ha dato forma. Benvenuti allora, davvero, nel deserto del reale.

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Del resto parla chiaro la storia editoriale di Schiffrin in Italia, di questo dito che ha indicato la luna. Nel 2006, scomparso il suo passeur Alfredo Salsano, e malgrado il successo d’opinione di Editoria senza editori, il secondo saggio, Il controllo della parola, è stato pubblicato sempre da Bollati Boringhieri ma con una prefazione molto cauta di Stefano Salis. E nello stesso 2010 in cui Bollati Boringhieri veniva assorbita dall’impero editoriale GEMS, il terzo capitolo della requisitoria di Schiffrin, Il denaro e le parole, non è uscito nella stessa collana dei predecessori bensì (a cura di Valentina Parlato) per l’ottima, e ovviamente assai più piccola, Voland. Censura del mercato? Ci mancherebbe.

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È curioso l’argomento di tanti professionisti dello snobismo dissimulati sotto severe vesti sociologiche. Non si sogni nemmeno di discutere le scelte del manovratore, chi è a bordo di uno stesso sistema complesso che non va turbato in alcun modo. Ci viene chiesto cioè di condividere le ragioni del profitto, e solo del profitto, che in una data-simbolo come il 1994 rivendicava per l’editoria il libro-conversazione dell’Amministratore Delegato Fininvest Franco Tatò, A scopo di lucro (Donzelli 1995). Tante menti anche raffinate, certo più della mia, da allora si arrampicano su scivolosi specchi dialettici al fine di coonestare la virtù di questo modo di pensare. Ma perché mai – mi viene da obiettare in modo, mi rendo conto, ben poco raffinato – dovremmo preoccuparci noi degli interessi degli editori (e di tutti gli attori, variamente lucranti, della c.d. “filiera del libro”)? Questo automatismo è l’esito di una propaganda tanto sottile quanto insistente, dagli effetti simili a quelli della sedicente post-ideologia ormai riuscita nel miracolo di convincere i poveri del mondo che gli convenga appoggiare forze politiche pronte a depredarli con mezzi praticamente espliciti, in tal senso, quali la Flat Tax. Ma è soprattutto, ai miei occhi, un’inversione da manuale dell’ordine logico, e assiologico, fra mezzi e fine. La salute economica dell’editore è appunto un mezzo; mentre il fine di noi lettori è, o dovrebbe essere, solo quello di essere messi nelle condizioni di leggere buoni libri.
Oppure prendiamo l’altra profezia della Cassandra-Schiffrin, quella secondo la quale il sistema delle concentrazioni editoriali (tanto “orizzontali” che “verticali”, è il caso di postillare: queste ultime accaparrando nelle mani delle stesse proprietà l’intera “filiera”, dalla produzione alla vendita al dettaglio, passando per il nodo cruciale della distribuzione) tenderebbe a “smantellare la libreria di proposta”. Su questo le statistiche (come del resto quelle che certificano nel periodo recente la nascita, sempre più frequente ogni anno, di piccole case editrici indipendenti) contribuiscono a fare più confusione che chiarezza. È vero che oggi tanti giovani imprenditori, coatti sfruttatori di loro stessi, non trovano di meglio che investire i sudati risparmi di famiglia nella libreriola-teeria-fufferia che dovrebbe contribuire a gentrificare le sempre più sgarrupate banlieues delle nostre sventurate città. È “la vita meravigliosa dei laureati in lettere” (come con acre ironia la definiva, già nel 2002, un titolo di Alessandro Carrera). Ma quante di queste intraprese velleitarie, ancorché spesso davvero nobili, reggono a un tempo non dirò lungo, ma almeno medio?
Nel quartiere in via di sedicente gentrificazione dove inamena conduco la mia esistenza, qualche tempo fa è stata fondata da un gruppo di giovani di buone letture una libreria che quelle buone letture portava già nel nome, “La pecora elettrica”. Un’oasi in cui, nel deserto della periferia romana, si faceva in effetti cultura – che, come ai tempi della “letteratura di una volta”, voleva dire anche politica (poche storie italiane denunciano in corpore vili lo svilimento di questa idea come quella delle Librerie Feltrinelli). Ma presto il sogno di quella Pecora coscienziosa è andato in fumo. Letteralmente: la libreria è stata data alle fiamme da un incendio la cui matrice dolosa si fa chiara, in modo insolente, una volta che si conosca la data del fait divers: la notte dello scorso 25 aprile [colpita da un secondo incendio doloso nella notte tra il 5 e 6 novembre, NdR]. Smantellare la libreria di proposta: quando si dice essere presi alla lettera (del resto si sa come matrice letteraria di Matrix sia proprio il Philip K. Dick omaggiato dai ragazzi antifascisti di Centocelle: così riconsegnati, pure loro, al deserto del reale).

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Un’ultima notazione. Fra le pointes che mi fanno antipatizzare, forse a torto, con un libro per molti versi importante come La letteratura circostante, c’è la seguente. Simonetti liquida la protesta contro l’“estetica del flusso”, da parte di autori e critici ostinatamente attestati sui canoni della “letteratura di una volta”, come “un’autodifesa corporativa basata sulla qualità”. […] Ricordo quanto questa parola fosse stata dibattuta, ai tempi di TQ. E rinvio alla definizione che ne diede allora Vincenzo Ostuni (La questione della qualità letteraria, in “alfabeta2”, 12, settembre 2011) in termini “deflazionati, procedurali, composizionali” (oggetto cioè di discussione in una sfera sociale, pubblica, civile).
I libri da leggere con lentezza sono libri speciali. Che risolutamente si sottraggono alle mode, ai format industriali, alle “tendenze” da rotocalco, alle urgenze attualizzanti della “cultura” da dopotiggì. Sono insomma, appunto, libri di qualità. Di questa paroletta magica e traditrice, che vuol dire – ha voluto dire – tutto e il contrario di tutto, personalmente (e forse molto banalmente) inviterei a considerare anzitutto l’etimologia. Qualitas è la proprietà, la caratteristica che individua qualcuno o qualcosa. Che quel qualcuno o qualcosa rende unico e “speciale”. Che ci consente di confrontarci con esso, per così dire, faccia a faccia: da uno a uno. Fra i grandi titoli della modernità letteraria ce n’è uno che più degli altri ci affascina per la sua ambiguità, L’uomo senza qualità di Robert Musil. È stato giustamente osservato che Ulrich, il suo protagonista, nonché essere privo di qualità ne ha al contrario sin troppe; e questo è uno dei motivi che gli impediscono di metterle a frutto (del resto il termine Eigenschaft non ha, in tedesco, la doppia valenza che ha “qualità” in italiano; e quel titolo sarebbe meglio traducibile, allora, come “L’uomo senza caratteristiche”). Ma proprio per ciò assomiglia all’esperienza che ha di sé l’uomo-che-legge nella modernità. Se è senza qualità è perché – in realtà, e al di là delle apparenze – assomiglia a tutti noi. Ciascuno di noi infatti si sente speciale, crede di avere qualità uniche e incomparabili. E in effetti è proprio così. Ma il paradosso è che proprio questo nostro senso di unicità è il primo e più sottile legame che, a ben vedere, ci unisca a tutti gli altri. È il paradosso della parola “speciale”, che Giorgio Agamben una volta (L’essere speciale, in Profanazioni, nottetempo 2005) ha illustrato in modo memorabile: “essere speciale non significa l’individuo, identificato da questa o quella qualità che gli appartengono in modo esclusivo. Significa, al contrario, essere qualunque, cioè un essere tale che è indifferentemente e genericamente ciascuna delle sue qualità, aderisce ad esse senza lasciare che nessuna lo identifichi”. È speciale ciò che riconduce ciascuno di noi alla specie cui appartiene: l’ontogenesi ricapitola la filogenesi. “Speciale è, infatti, un essere – che, non somigliando ad alcuno, somiglia a tutti gli altri” (è ancora Agamben che parla).
Lo stesso vale per i libri, e i loro autori. […] La vera qualità, il vero essere speciale, di un autore o di un libro, […] ha a che fare piuttosto con la sostanza stessa, degli autori e dei loro libri. Con la loro scrittura, cioè; e con la “grammatica della visione” che sempre essa significa, sottende e veicola. L’unicità dello sguardo di chi ha scritto: e, incontrandoci, ci rivolge la parola. Come Morpheus, di là dagli occhiali a specchio. […] Ciascuno è diverso dagli altri e dunque tutti appartengono, davvero, al nostro comune essere umani. Un grande poeta, Sandro Penna, ha scritto una volta: “Felice chi è diverso / Essendo egli diverso / Ma guai a chi è diverso / Essendo egli comune”. Guai, sì, sono sempre quelli che abbiamo in sorte: tutti noi uomini perfettamente comuni e dunque diversi da tutti gli altri. Per questo abbiamo scelto di prendere in mano un libro. Per condividere qualcosa che sappiamo sarà comune, sempre e in ogni caso, almeno a qualcun altro.