Recensioni / Utopian Display. Geopolitiche curatoriali. Una conversazione con Marco Scotini

Da poche settimane è in libreria un nuovo libro curato da Marco Scotini e pubblicato da Quodlibet editore, Utopian Display. Geopolitiche curatoriali, è una raccolta di scritti molto interessanti che cerca di interrogarsi sul ruolo dell’arte contemporanea nella società. Questa antologia di scritti raccoglie esperienze curatoriali maturate negli ultimi trent’anni in differenti contesti geopolitici, dall’Africa alla Cina, dall’India all’America Latina, dal Medio Oriente fino allo spazio post-sovietico. Gli autori, appartenenti a differenti generazioni, sono tra le voci più importanti e sperimentali della ricerca curatoriale contemporanea. Appena ho finito di leggere il libro ho incontrato il curatore di questa antologia per fargli qualche domanda su i temi che mi hanno più interessato.

Per iniziare vorrei chiederti come nasce la voglia di curare questo libro e poi ti chiederei di spiegare cosa intendi per geopolitiche curatoriali.
Il libro è il primo di una collana editoriale, pubblicata da Quodlibet e promossa da NABA, che vedrà a breve la stampa di altri volumi dedicati a diverse discipline, tutte interne all’Accademia. Per questo il titolo “Utopian Display” fa riferimento a quanto abbiamo fatto nella scuola di curatela a partire dal 2003: è una sorta di password che abbiamo utilizzato in più occasioni per seminari internazionali con curatori e artisti, declinandolo di volta in volta in rapporto all’exhibition making, alle biennali d’arte, all’allestimento espositivo. Ora il format è quello di un libro con un contenuto totalmente nuovo e che mette a confronto l’attuale esplosione policentrica dell’arte contemporanea con il nuovo ordine mondiale. Se pensiamo che le biennali nel mondo erano quattro e fino agli anni ’90 (la Biennale di Venezia, quella di San Paolo, dell’Avana e documenta a Kassel) mentre ora sono oltre trecento, ci dobbiamo chiedere quale ruolo abbia avuto il fenomeno della globalizzazione degli ultimi venti anni all’interno del sistema dell’arte. Viceversa: in che modo l’estensione a tutte le latitudini del sistema dell’arte occidentale abbia accompagnato, promosso e legittimato culturalmente, la globalizzazione. Dunque, “geopolitiche curatoriali” ha questo significato. Ricorrere al termine “geopolitica” (nell’accezione del primo Yves Lacoste) ha senso di fronte alla proliferazione delle identità nazionali contemporanee e alla tensione e competizione dinamica tra loro (“i mondi agonistici”, come li chiama Geeta Kapur nel libro). Mi viene in mente, tanto per fare un esempio, l’emersione dal 2015 del Padiglione Catalano alla Biennale di Venezia. Di fatto se l’assetto territoriale della guerra fredda è entrato in crisi non si deve tanto al tentativo della cancellazione dei confini nazionali da parte del capitale quanto alla loro moltiplicazione.

Nella tua introduzione c’è una critica alle fantomatiche promesse della globalizzazione, a cosa ti riferisci?
Ci sarebbero molti elementi da introdurre in questa risposta, proprio nel momento in cui sta circolando, come nuovo slogan all’ordine del giorno, quello di de-globalizzazione come nuova emersione del neo-sovranismo e nazionalismo proposto dal populismo delle destre avanzanti nel mondo. Ma la domanda che si pone il libro è se questa nuova versione autoritaria del neoliberismo non fosse già inclusa nel più ampio progetto della globalizzazione, di cui non sarebbe altro che un elemento di continuità. Di fatto questa svolta, avallata dalla crisi finanziaria del 2008, non fa altro che lasciare intatto il capitale privato delle attuali oligarchie, garantendone in sostanza la loro perpetuazione. E qui verrei a quello che secondo me è un aspetto fondamentale di tutta la questione e che vedo come il rapporto – da sempre non problematizzato – tra post-colonialismo e neoliberismo O, meglio, quella sintesi che è il capitalismo postcoloniale. È così vero che il capitale globale contemporaneo non sia più mosso da logiche di accumulazione coloniali e imperiali? Se spostiamo la questione all’interno dell’arte contemporanea, ci potremmo domandare se è vero che ad essere stati inclusi nella produzione culturale attuale siano le scene artistiche minoritarie o soltanto un internazionalismo astratto che obbliga a esprimersi in una sorta di inglese dell’arte come lingua franca.

Negli ultimi anni abbiamo assistito a “un’esplosione” delle biennali d’arte in tutto il mondo. Uno sguardo superficiale vedrebbe soltanto positività in questa proliferazione senza fine, ma sappiamo bene che non abbiamo vissuto solo un aspetto positivo in questo cambiamento, e che c’è uno stretto legame tra proliferazione e discorso turbo capitalista e speculativo. Detto questo, e penso che concordiamo su questa mia affermazione, nel testo ci parli della possibilità dei margini in questo moto di espansione delle biennali, cosa intendi?
I quindici saggi presentati nel libro, a firma di alcune delle maggiori figure della curatela internazionale, non solo si interrogano su come creare un’alternativa ma propongono anche dei possibili modelli espositivi, istituzioni non allineate, decostruzioni dei canoni egemonici normativi e riscritture della storia. Il fantasma che aleggia su tutti i testi è ancora quello coloniale rispetto al quale sono tanti i tentativi di sottrarsi ad una sua minaccia e riproposizione, per cui ci si sforza di immaginare il globalismo culturale come una forma di reciprocità piuttosto che come un pensiero a senso unico. Ciascuno cerca di minare il senso dei cliché culturali, delle politiche istituzionali, delle identità etnografiche e di genere, delle insidie del mercato, delle aspettative dei pubblici e dei format espositivi per dare origine a delle contro-mostre o avventurarsi in imprese al limite, come nel caso del progetto sul Picasso in Palestina in cui l’artista Khaled Hourani chiede in prestito al Van Abbemuseum di Eindhoven il suo “Buste de Femme” del 1943 aprendosi a tutte le contrarietà burocratiche che il trasporto avrebbe incontrato seguendo il protocollo richiesto dalle istituzioni museali olandesi.

Tema fondamentale in questa raccolta di scritti è quello della “riscrittura della memoria”, quindi non posso non chiederti di ragionare su un discorso per me molto importante, che possibilità abbiamo oggi di rappresentare “l’altro culturale” e cosa significa museo post-coloniale?
Innanzitutto premetterei che all’interno del libro il tema del soggetto colonizzato non è solo quello relativo alla dimensione etnografica, ma abbiamo volutamente incluso saggi sul genere come quelli di Andrea Giunta e Miguel A. Lopez. Il soggetto femminile e quello cross-gender, pur nella loro diversità, sono visti alla stessa stregua di ogni altra soggettività subalterna. Il Museo delle donne in Zambia (evocato da Anselm Franke) e il Museo Traversti del Perù (presentato da Lopez) fanno parte della stessa volontà di decolonizzazione delle narrative egemoniche patriarcali/coloniali. D’altra parte il museo è stato uno dei dispositivi più efficaci della modernità nell’avere istituito le rappresentazioni gerarchiche dominanti e nell’avere naturalizzato ogni divisione sociale, sessuale e di classe, in nome dell’universalità e dell’obiettività scientista. La proposta di cannibalizzare il museo, come arriva da più parti, opererebbe dunque in favore di una decostruzione non solo dei modelli museali ma di quei presupposti (economico-culturali) su cui tali modelli si sono fondati. Non nascondo che al libro manchi un paragrafo su un ulteriore ambito della decolonizzazione: quello della natura. Ma sul tema ho appena curato un intero libro dal titolo “Politiques de la Végétation”, pubblicato da Eterotopia France e uscito pochi mesi fa.

Non possiamo parlare di tutti i contenuti del libro ma altre due domande vorrei porle, mi è piaciuto molto il discorso affrontato da Anselm Franke sui musei auto-espropriati, cosa sono? cosa significano per il mondo dell’arte contemporanea?
Il museo auto-espropriato è un altro nome per un possibile modello di museo post-coloniale. Prendendo spunto dallo slogan di Marx “espropriare gli espropriatori”, Franke afferma che i musei dovrebbero disfare se stessi. O, meglio, disarmare e rovesciare il retaggio culturale occidentale su cui si sono fondati. In questo moto destruens il museo auto-espropriato dovrebbe mettere in mostra non solo dei contenuti ma anche le forme di mediazione o le cornici attraverso cui tali contenuti vengono mostrati. In sostanza il museo ha sempre parlato attraverso la produzione di codici ma mai in merito a questi codici. La pars costruens del nuovo museo consisterebbe dunque nella riappropriazione di quanto questo dispositivo istituzionale ha precedentemente espropriato. Ecco allora il museo non più quale luogo della produzione di divisioni ma quale spazio della loro indagine e della loro messa in discussione.

Altro contributo veramente raro e interessante è quello di Tina Sherwell, cosa sta succedendo nel mondo dell’arte contemporanea palestinese e come si relaziona con le politiche di liberazione?
Non è l’unico contributo che, nel libro, interviene all’interno della scena culturale di uno dei conflitti geopolitici più noti al mondo, come quello tra Israele e Palestina. Quello che trovo interessante nell’indagine di Tina Sherwell è la denuncia di come l’arte contemporanea abbia avuto nei territori Occupati un ruolo neocoloniale. La Sherwell rende conto di come il ruolo della produzione artistica si sia trasformato da strategia di resistenza (durante l’occupazione) a forma di auto-esotismo (con la globalizzazione). In fondo l’arte contemporanea palestinese all’inizio del conflitto è fortemente legata alla costruzione di un’identità nazionale e alle politiche di liberazione, per cui il destinatario principale era il popolo palestinese, senza trascurare quello internazionale. Poi con gli anni ’90 è stato creato il cliché della palestinità, neutralizzando ogni antagonismo entro le aspettative del mercato neoliberale. In fondo si tratta di un fenomeno molto tipico della globalizzazione per cui si ha sempre più la sensazione che l’integrazione nel sistema Arte assomigli sempre più al principio di un’istituzione politica maggioritaria fondata sulla dialettica inclusione/esclusione.

Avevo promesso due ma ne faccio una terza che si ricollega alla quarta domanda che ti ho posto, Rasha Salti ci parla della pratica curatoriale che possa decolonizzare la storia delle esposizioni, credi che sia possibile farlo in Occidente?
Finora abbiamo tenuto fuori dal nostro discorso ogni riflessione relativa alle comunità diasporiche ma credo sia emersa comunque la complessità e la stratificazione che una riflessione sul museo o sulla esposizione oggi comporti e da cui deriva l’urgenza di riscrivere le storie. Con l’indagine di Rasha Salti siamo di fronte ad un ulteriore ed emblematico caso storico, quello che lei identifica con la mostra tipica della Postcolonia, citando Mbembe. Il riferimento va alle mostre di solidarietà internazionale, a carattere itinerante, che sono sorte negli anni ’70 e che avevano come scopo solo quello di supportare la causa di paesi oltraggiati, offesi, violentati. Fuori dal mercato e fuori da ogni approccio curatoriale o da ogni tendenza culturale, queste mostre avevano la capacità di creare ampi circoli di solidarietà internazionale, oltre tutte le barriere geopolitiche. Queste esposizioni, che oggi sarebbero semplicemente impensabili, ci riportano alla irrevocabile coscienza di un dramma comune, alla memoria di ciascuno e al destino di tutti.