In una delle spigolature raccolte
in Storie vere e verissime, il complice di sempre Ermanno Cavazzoni racconta - parodiandolo
con affetto - le sue Avventure con
Celati. Fra le altre il momento in
cui, irritatissimo colle gerarchie accademiche, questi avventurosamente dà le dimissioni dall'Università di Bologna, dove a lungo aveva
insegnato Letteratura angloamericana. «Ma adesso cosa fai?», gli chiede l'amico. E Gianni, ancora un po'
incazzato ma - c'è da scommettere
- con un sorriso: «Voglio guadagnarmi il pane onestamente». Era il
1992: Celati aveva 55 anni e alle spalle un grande libro di saggi, Finzioni
occidentali, che illustrava le due tradizioni di quello che (spesso a torto)
chiamiamo «romanzo». Da un lato
il novel "serio" e costruttivo, à la Defoe, che dell'essere umano illustra la
vocazione sociale, economica, pratica; dall'altro una tradizione più carsica e zigzagante, "minore" e strabiliare: che dello stesso essere umano
incarna viceversa la sociopatia e
l'inadattabilità, i comportamenti
nocivi e i cattivi pensieri. Dieci anni
prima, nel '66, ne aveva tradotto un
archetipo, la Favola della botte di Jonathan Swift. L'introduzione s'intitolava Swift l'antenato: e convocava
i "discendenti" - da Joyce, Céline e
Beckett a Gadda e Manganelli - di
quella «macchina eversiva» che
smembra la narrazione tarlandola di
apologhi e dialoghi, divagazioni
saggistiche e sfoghi isterici. Il testo
come macchina, appunto: non però
quella oliata ed efficiente del novel
(che ancora oggi, orribilmente, si dice «funzionare»), bensì una macchina dissipativa che produce senso
mediante il proprio attrito linguistico e strutturale. Tutto questo s'iscriveva per Celati sotto la categoria del
«comico»; e infatti l'anno prima era
apparso, su una rivista della neoavanguardia, il primo lacerto di quello che sarà il suo esordio di scrittore:
e che nel '71 - con la malleveria di
Calvino, ma in una collana einaudiana diretta giusto da Manganelli insieme a Sanguineti e Davico Bonino
- s'intitolerà, appunto, Comiche.
Da quel momento in poi narrativa
e saggistica s'intrecceranno sempre,
dando vita alla più acuta autocoscienza letteraria nello snodo cruciale che dal modernismo ci porta al
tempo che gli tiene dietro. Dopo lo
scisma dai dispositivi di autogaranzia intellettuale della macchina accademica, «guadagnarsi il pane» ha
significato per Celati mantenere un
atteggiamento da studioso, e anzi
proprio da studente: che gli oggetti
d'affezione (come li chiama, alla maniera dei surrealisti) della propria
genealogia cura con assiduità amorosa, di volta in volta e a più riprese
traducendoli, commentandoli, antologizzandoli. Le introduzioni ai
classici della "sua" disciplina (ma
anche a quelli di una certa tradizione
francese; e peccato manchi un'incursione importante in quella tedesca, le Poesie della torre di Hölderlin
tradotte nel '93) erano da tempo una
piccola leggenda, che noi «intrampani universitari» (come ci ingiuria
un racconto di Cinema naturale) coltivavamo passandoci sottobanco fotocopie impolverate e tutte sottolineate: la loro sospirata raccolta - che
segue la parallela silloge sugli "antenati" italiani, Studi d'affezione - è
una vera festa.
Bellissimo il titolo, Narrative in
fuga. Si emancipa polemicamente
dalla tradizione "seria", s'è detto, la
contro-tradizione dissepolta da Celati con lo scrupolo e l'emozione di
un cercatore d'oro del Klondike (dall'«irruenza avventurosa» di Stendhal alla «furia dello sproloquio» di
Céline; dal «mormorio della vita interna» di Michaux all'«atarassia già
post-moderna» del Perec più sonnambulico; dalla «verità dell'incoscienza» di Gulliver al «viaggio senza
meta» della Favola della botte - ritradotta nel '90 -, sino alla «narrativa di visioni» di Flann O' Brien e al
«disordine delle parole» nell'Ulisse
di Joyce: alfa e omega, oggetto della
tesi di laurea nel climaterico '63 e,
mezzo secolo dopo, della traduzione
integrale per Einaudi).
Ma lo stesso Celati mette a fuoco
pure come proprio la «fuga» dei
personaggi, dalla «prigione» della
«vita sociale», sia il pattern tematico
e insieme l'ordine ritmico che collega tradizioni narrative, fra loro, anche così distanti. «La diversità è la
mia legge!», bercia Céline; e sono
asociali terminali, vagabondi lunatici ossessionati dal «fuori», i «solitari» americani della bellissima antologia curata con Daniele Benati
nel 2006: dal Wakefield di Hawthorne all'Uomo della folla di Poe, dal Richiamo della foresta di Jack London
all'ammutolirsi dei reduci di Hemingway. Il loro santo protettore è
Bartleby, lo scrivano dell'omonimo
racconto di Melville che a lungo ha
ossessionato Celati: sino a una leggendaria edizione che nel '91 allineava pure, in appendice, un'antologia di ben 88 diverse interpretazioni con puntiglio riassunte (e il più
delle volte contestate). Nello stesso
periodo ci si accaniva anche Giorgio
Agamben, che vi vedeva la figura
della vita «qualsiasi» (ossia quodlibet: «I'm not peculiar», dice lo scrivano, vero uomo senza qualità la cui
stramberia si rivela così segno del
suo «essere speciale»: perfetto rappresentante della nostra specie,
cioè, ovvero - aveva detto Gilles Delenze - «il nuovo Cristo, o il fratello
di noi tutti»). Il silenzio è il destino
di Bartleby, che s'incammina verso
l'ultima tule della solitudine (la
stessa delle isole Encantadas degli
estremi racconti di Melville). Un silenzio figura della morte, della dissoluzione nell'indifferenziato fuori
di noi: un mondo che «svanisce all'orizzonte come le nubi in un giorno d'estate», uno spazio dove ci sono solo il vento e l'erba che cresce.
Quel silenzio cui oggi è condannato
- per ironia di una sorte che raggela
ogni sorriso - il maggiore scrittore
italiano vivente.