Recensioni / La vera libertà secondo Celati è libertà «da»

Contro la regola, lo standard, l'uniformità, l'omologazione già paventata da Tocqueville come rovescio oscuro della democrazia; per una libertà che non sia intesa come «proprietà», materiali o peggio ancora intellettuali, ma come infinito differimento, scarto, pura potenza insofferente di ogni gabbia.

Queste, se avessi ancora meno tempo di quello concesso per scrivere un articolo di giornale, sarebbero le righe con cui cercherei di circoscrivere quello che da almeno trent'anni è per me il paradosso Celati. Massima gratitudine al lettore cui riuscirà di scioglierlo leggendo queste sue mirabili Narrative in fuga, raccolta di saggi, per Io più prefazioni a classici da lui stesso tradotti, amorevolmente curata dal suo sodale Jean Talon per Quodlibet Compagnia extra. Aiutandosi magari con l'utilissimo nuovo numero di «Riga», il secondo che la rivista gli dedica, a cura di Marco Belpoliti, Marco Sironi e Anna Stefi, dove troverà splendide fotografie, a cominciare da quella di copertina, molti preziosi inediti e interviste, un'antologia di recensioni e ottimi contributi scritti ad hoc. Di tutto ciò munito, sai mai che il lettore diligente non riesca a risolvere il paradosso da cui io invece non so e probabilmente nemmeno voglio venir fuori. Paradosso che è contenuto tutto in quell'antitesi tra contro e per, associata all'idea di libertà. Un'idea che, in specie se si coniuga a quella di potenza, ío non riesco a sentire contro proprio a niente, se non nelle crisi rivoluzionarie, quando appunto la potenza troppo a lungo compressa esplode come un'eruzione e si fa, per il breve spazio di un mattino, potere costituente. La libertà di Celati è di tutt'altro tipo. È la libertà dei moderni, negativa, «libertà da», non «libertà di»: qualcuno deve prima avergliene fatte delle sporche. E il tentativo sempre reiterato, e sempre riuscito a lui e agli autori che introduce (almeno fino a quando restiamo sotto l'incantamento irresistibile della sua voce), dì sottrarsi alle due macchine mortali con cui la modernità ha scelto di disciplinare sé stessa, il Capitale e il Leviatano, Dio mortale fatto di tanti omarini ordinatamente affastellati uno sull'altro, superiorern non reconoscens almeno finché qualcuno non lo spazza via — non per nulla è un Dio mortale.
Quando Celati arriva coi suoi autori, i giochi sono fatti e c'è soltanto da scansarsi. Che lo si faccia come il Bartleby di Melville, lo scrivano anoressico che non vuole più scrivere, o altri solitari americani come il Wakefield di Hawthorne o L'uomo della folla di Poe; o come i personaggi di Jack London; o come Huckleberry Finn, protomartire gioioso di ogni tramp; o come un intero romanzo tipo La certosa di Parma dí Stendhal, dove le logiche implacabilmente volitive delle passioni vengono trasposte in un'Italia immaginaria in quanto suonerebbero ridicole a una Francia ormai asservita alla mediocrità del «governo dei banchieri» di Luigi Filippo.
Benissimo anche le peregrinazioni in terra sconsacrata di Céline (Grand Guignol Band, Da un castello all'altro), con buona pace della sua grave compromissione con l'antisemitismo, perché cos'altro sono le opinioni umane, come mostra lo Swift del Gulliver<7i> e della Favola della botte stupendamente trasposti da. Celati, se non enfiagioni di vesciche mentali da espellere salutarmente per via escretoria? E meglio ancora — a temperatura più ridotta e dunque più adatta a quel regno dell'infra-ordinario che la menzogna delle «grandi idee» e dei «luminosi destini» d'abitudine non ci lascia vedere — i vagabondi senza vocazione mossi soltanto dagli umori come il Georges Perec di Un uomo che donne, o l'Henri Michaux che trovava inutilmente programmatica perfino la scrittura automatica di André Breton. Su tutti, ovviamente, Joyce con il suo Ulisse, che Celati ha tradotto nel 2013 in una versione più attenta alla musica (alla vita come musica, più canzonetta che sonata) che al significato: non si può capire tutto, anzi è male, è questo il grande inganno del razionalismo moderno, della psicologia e del romanzo mainstream con la sua «adulta» ottimizzazione delle trame.

Tutto bellissimo, dunque. E il paradosso? Temo rimarrà sempre quello di cui dicevo all'inizio. Che libertà è una libertà che non prorompe ma si afferma, sia pure per via di sottrazione, soltanto in una modalità reattiva? Quale felicità aspettarsi dal risentimento? Di qui l'altra musa di Celati, da lui coraggiosamente corteggiata e blandita onde non prenda il sopravvento, la melanconia, una melanconia a tratti nerissima. Il riso espulsivo, la scoreggia di Rabelais, non è roba da moderni, è una droga che bisogna procurarsi a prezzo di ricerche faticose, dì esegesi laboriosissime, ancorché scritte in una lingua tersa come quella di Celati. Potrà erompere naturalmente al sorgere di qualche arte ancora bambina come il cinema muto, Charlot che dà un calcio nel sedere a un rispettabile signore senza un perché che non sia la voglia irresistibile di farlo.
Tutto il resto, temo proprio che sia filologia. Divertentissima, se la fa Celati, ma pur sempre col retrogusto di venenum in cauda che c'è in ogni filologia. Più paradosso di così.

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