Poco più dí vent'anni fa, era il
1998, Michele Sovente pubblicò
la sua quarta raccolta di versi,
Cumae, nella collana di poesia
diretta da Giovanni Raboni
presso l'editore Marsilio. Si tratta del suo
libro più fortunato (vinse tra l'altro il
Premio Viareggio) e probabilmente più
rappresentativo, perché per la prima
volta viene messo a punto qui quel sistema
espressivo trilingue — italiano, latino,
dialetto — che è diventato poi il
principale tratto di riconoscimento della
sua poesia. Da tempo introvabile, come
del resto spesso accade, Cumae ha avuto
tuttavia l'onore di un'edizione critica e
commentata (Quodlibet). Il merito va
ascritto a un giovane studioso, Giuseppe
Andrea Liberti, la cui sincera passione
per il poeta campano, nato nei Campi
Flegrei, ha di fatto nutrito l'attenzione e
lo scrupolo con cui ha curato i suoi versi.
A che cosa guardare, allora, tanto più
alla luce dei materiali e dei commenti
messi a disposizione da questa nuova
edizione? Anzitutto a due aspetti: l'altissima
definizione dell'immaginario e la
vitalità dell'officina poetica. Quanto al
primo punto, va detto che nei suoi versi
Sovente è riuscito a dare adito a un determinato
senso del luogo. Una cosa non
da poco, perché non implica sèmplicemente
un paesaggio visibile o dei riferimenti
geografici particolari, bensì, più
profondamente, uno spessore, radici, un
retaggio antropologico e culturale. Ed è
proprio il paradosso di questo concretissimo,
tangibilissimo paese nascosto a
innescare la sua poesia, che infatti è
gremita di fratture e cavità telluriche, di
antri oscuri, di «erosioni e deflagrazioni
», di reperti archeologici o mitici, dì
«mostri e chimere» che affiorano qui e
ora, nel tempo della storia. Da questo
punto di vista, il componimento d'apertura
della raccolta mette subito in chiaro
la situazione di questa poesia: «e si addensa
vieppiù nei giorni la scrittura/ che
cattura le meteore del passato:/ sotto il
sole — lassù — a perdifiatof parlano i
ruderi oscuri della storia». E un immaginario,
dunque, che si estende molto più
in profondità che in ampiezza. Ritornano
le stesse ossessioni, le stesse paure, le
stesse figure. Sovente non è uno scrittore
di conquista, che ambisca al possesso di
territori sempre nuovi e diversi. E uno
scrittore della fissità, invece; un poeta
sempre in ascolto delle stesse voci, un
poeta-sonda che continua a scavare o a
trivellare nello stesso identico punto, lì
dove davvero gli preme.
Ecco allora il secondo aspetto: la «lingua
una-e-trina» che ricorre nei suoi
versi (tre fisionomie distinte per una
sola lingua poetica) è legata anzitutto
alla capacità di sentire di questo poeta,
che davvero è tutto orecchio, come una
specie di grande collettore, di medium
che voglia restituire ciò che lo attraversa,
e che lo costituisce anche, ma che tuttavia
non gli appartiene. «Tante lingua
l'anima parla»; forse Sovente ci sta dicendo
che noi non siamo soltanto noi,
che tanti strati e fili diversi ci attraversano,
s'intrecciano, si perdono e ricompaiono;
e ancora che il rapporto'tra Storia e
Natura non è fissato per sempre, che il
gioco delle parti tra ciò che è vivo e ciò
che è morto non è per nulla scontato.
L'officina poetica di Sovente è dunque
estremamente affilata, modernissima e
antica, ancestrale quasi. Da un lato perla
pluralità delle lingue, per l'apertura alla
molteplicità, più di tutto per la consapevolezza
che la scommessa su ciò che è
unico ed esclusivo costituisce in realtà
un terribile impoverimento antropologico;
dall'altro perché dà comunque credito
(come forse solo un lettore fedele di
Giambattista Vico può fare) al grande
rito della poesia, alla capacità di esplorare
i territori dell'umano, nessuno escluso,
e di trovare le parole per significarli.